"A seconda dei diversi punti di vista, i mezzi di comunicazione di massa o sono considerati lo specchio oggettivo della società - e pertanto non fanno altro che riflettere la sua realtà - oppure la violenza da essi costantemente rappresentata diventa inevitabilmente la diretta responsabile dell'aumento della violenza che riscontriamo nella nostra vita quotidiana. Viene spontaneo domandarsi se nasca prima l'uovo o la gallina, ed il fatto che la domanda non abbia una risposta univoca giustifica di fatto entrambe le posizioni, ognuna delle quali può considerarsi corretta."

In queste incontestabili parole, tratte dalle poche pagine di un intervento incluso nel saggio La Violenza allo Specchio, che ne approfitto per consigliare, c'è molto per capire l'Haneke pensiero rispetto al mezzo mediatico ed alla diffusione delle immagini nel mondo contemporaneo (un simile discorso era già applicabile a Benny's Video, o a 71 Frammenti di una cronologia del caso, film, quest'ultimo, per me, tra i migliori del regista nato a Monaco di Baviera).

La digitalizzazione di massa nel contesto odierno del dominio tecnologico nella società iper-globalizzata ha prodotto il vero cambiamento (ma sarebbe, anzi è, meglio dire evoluzione) della specie; e, sempre parlando di punti di vista, generato i mostri di cui si assistono oggi le gesta.

L'uovo o la gallina. È la globalizzazione ad aver spinto oltre il processo di digitalizzazione, o quest'ultima ad aver creato i germi della prima? Speculazioni puramente personali.

L'ultimo film di Haneke, presentato alla settantesima edizione del Festival di Cannes - da cui è, per la prima volta dai primi anni '00, uscito senza premi, tra l'altro - è anche il primo che ho avuto il piacere di vedere al cinema. Sicuramente è difficile parlare di Haneke da prospettive inesplorate, in quanto si tratta di uno dei pochi autori veramente influenti e celebrati, quasi unanimemente, a livello di cinema d'élite. Non si tratta, come detto, in questo caso, però, del più amato dei suoi lavori; nonostante questo, al suo interno c'è tutto l'Haneke che si può cercare. La frustrazione, l'inettitudine, la meschinità, l'ipocrisia, la normale e ordinaria inumanità dell'alta borghesia situata nella zona strategica di Calais, che non può non avere un alto valore simbolico per le note vicende di questi anni.

Non si può dimenticare come Amour, precedente parto hanekiano, fosse uscito nel 2012. E da allora di cambiamenti ce ne sono stati giusto alcuni. Chissà che i Maya, dopo tutto, non avessero tutti i torti nel preannunciare con qualche millennio di anticipo la fine del mondo come lo si conosceva.

In Happy End, quindi, l'ennesima galleria di mostruosità benestante è servita, condita dal consueto, distaccatissimo sguardo da antropologo cui si è abituati dall'austriaco autore - regista. Niente di nuovo sotto l'europeo cielo e nella filmografia del Nostro. Addirittura, per la prima volta, personaggi del passato tornano, senza che però si possa parlare in nessun modo di sequel. E non si tratta nemmeno di maniera, questo è da chiarire. Piuttosto, mi piace pensare che si tratti di una piccola summa dell'opera hanekiana. Che, d'altra parte, giunto in non più verde età, non essendo prolifico quanto un Allen o un Eastwood, potrebbe non avere tantissimo cinema davanti a sé (gli scongiuri sono ovviamente d'obbligo).

Agli estremi, ricorderò sempre le due figure principali di questo lavoro: Eve, la ragazzina dal volto angelico, che perde la madre e si mostra come l'unico volto tenero e non ancora completamente distaccato e, contemporaneamente, come il più inquietante prodotto del voyeurismo delle immagini virtuali, a formare la realtà condivisa, più reale del reale; una diretta discendente dell'indimenticato, caro vecchio Benny di cui sopra; ed il nonno, Georges (vedovo di Anne/Emmanuelle Riva, appunto), aspirante suicida con pesanti segni di demenza senile, interpretato dall'irriducibile ed immenso ottantasettenne Jean-Luis Trintignant. Nulla da togliere alla solita, impeccabile Isabelle Huppert ed a Kassovitz (che riesce a dare finalmente una parvenza di senso alla sua carriera recente), ma il centro del film è senz'altro attorno ai due sopracitati, rappresentanti di due generazioni tanto distanti eppure gli unici, all'interno di tale contesto, a riuscire in qualche modo, seppur non certo ortodosso, a comunicare.

L'Happy End hanekiano non colpisce duramente al volto, alla mente ed allo stomaco come Funny Games o La Pianista, non ha la forza storica visiva ed allusiva de Il Nastro Bianco (capolavoro assoluto del regista, a mio parere), non è l'espressione teorica, intangibile e misteriosa di Caché. Non è, in definitiva, il suo miglior film. Ma rimane una visione, come in tutta la sua filmografia, d'interesse molto superiore alla media. Sempre. Un cinema, quello dell'austriaco, che non è pensato, prodotto ed ultimato per piacere, non nel senso classico del termine. Ma è un cinema a cui, nel momento durante e dopo la visione, non puoi rimanere indifferente. E, soprattutto, un modo di guardare e filmare che appartiene solo e solamente al proprio autore. Mi è sempre balenato in testa un paragone con Bresson. Non a caso Au Hasard Balthazar viene citato da Haneke come proprio film preferito, ed altri poco dopo (Lancillotto e Ginevra, ad esempio). Ma Bresson non s'occupava della borghesia ed era costante la centralità della questione spirituale e, per citare Paul Schrader, della trascendenza. In Haneke nulla di tutto questo, niente che sfiori la tematica religiosa. Ma sempre uno sguardo impietoso, gelido, distantissimo (e qui in Happy End come non mai) sui comportamenti, sulle brutture, sulla natura dell'uomo. Nessun giudizio, solo constatazione, ragionamento, pensiero, riflessione.

In compenso, come, d'altronde, sempre con i veri grandi, sono in diversi quelli che sono stati e continuano ad esserne influenzati; un nome su tutti: Lanthimos.

A proposito, non so perché, ma ce la vedrei bene una coppia tra la qui presente Eve ed il Martin di The Killing of a Sacred Deer. In una specie di versione cinematografica soft di Stewie e Penelope.

Seppur non sia uscito negli ultimi giorni dell'anno, e seppur siamo ormai a 2018 inoltrato, l'Happy End hanekiano è il modo migliore per concludere l'annata cinematografica 2017. Almeno personalmente (è difatti l'ultimo film che ho visto al cinema nella scorsa annata).

E con quella vena finale di beffardo umorismo nero che non guasta.

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