E’ il tipico film per il quale, ancor prima di entrare al cinema, il metro di valutazione si restringe fino ad assumere le fattezze della punta di una piramide lasciando ben poco spazio di manovra. Mi sono fermato dopo i titoli di coda al bar, giusto per sentire le prime impressioni ed è stato uno show di sospiri, mugolii di apprezzamento e grande sfoggio di superlativi assoluti e sorrisi. Profusione di frasi del tipo “la magia del cinema”, “pura poesia” e, specie da parte del gentil sesso, smorfie di godimento assoluto che manco fosse passato Rocco Siffredi in sala.
Resto convinto che un poeta debba scrivere sulla carta e che i maghi facciano un maggiore effetto dal vivo, ma mentirei se vi dicessi che “The Artist” non mi abbia stupito. Mi sono voluto prendere un bel lasso di tempo prima di vomitare queste righe e mentre pigio i tasti sento montare frustrazione; realizzo quindi che la pubblicità positiva per questo film, ancor prima della sua uscita, me lo aveva fatto progressivamente odiare. Tutti questi voti rotondi ed obesi in un’unica direzione li devo avere intesi come un attacco alla capacità di giudizio ed un‘imposizione nel dover obbligatoriamente considerare geniale, eccezionale, fantastico, magico e meraviglioso un film muto nel 2011. Quasi la sola idea, a prescindere dalla resa, meritasse un consenso totale.
Momenti di ilarità, alternati a puro dramma, si mescolano per una sceneggiatura tutt’altro che illuminata, ma equilibrata nel suo ritmico incedere. Un amore abbozzato cerca di schiudersi tra il successo dell’astro in rampa di lancio e la deprimente caduta della celebrità del passato recente. “The Artist”, sottolinea come nella foga della continua ricerca verso l’innovazione spesso si tenda a archiviare e rigettare quanto apprezzato fino a ieri, manco si trattasse di uno stronzo sul tappeto di casa. La pellicola si concentra sul mondo del cinema, il passaggio dal muto al sonoro, ma è evidente come il messaggio sia valido anche agli aspetti più comuni del quotidiano.
Inizialmente in sala era come se tutti avessimo avuto in mano qualcosa di fragile; quando sarebbe stato lecito rispondere al gesto muto con una risata regnava il silenzio. Solo con le prime didascalie lo spettatore realizza completamente che sta assistendo ad un film muto e che non sentirà la voce dei protagonisti. Per quanto ovvio e preventivato, ho trovato impressionante il silenzio nei momenti in cui la colonna sonora lasciava tutto lo spazio al B/N. Per la legge del contrasto la musica, non solo piacevole contorno, ma colonna di fondamentale importanza nella struttura dell'opera. E per lo stesso motivo, la mancanza della parola, viene irrobustito il peso della gestualità: in tale ottica credo che i due protagonisti (Jean Dujardin e Berenice Bejo) ed il quadrupede abbiano fatto un lavoro mirabile e che ci siano almeno due scene con giochi di braccia e gambe di notevole impatto visivo.
Per quanto mi dia ancora stupidamente fastidio, i motivi snocciolati nell‘incipit, devo ammettere che è stato grande cinema. Spero di essere riuscito a trasmettere questa sensazione contrastata senza aver rotto i coglioni a maghi, poeti e scomodato troppi superlativi assoluti.
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