Ho 15 anni, i miei sono già a letto, smanetto con la tv e becco questo trombettista che suona qualcosa di incredibile. Con lui c’è il mio adorato Chick Corea… Un concerto pescato chissà dove e finito in braccio a mamma Rai chissà come. Sono in trance.

La mattina dopo mi precipito nel negozio di dischi di fronte al liceo e racconto alla commessa di questo trombettista con Chick Corea. Lei sorride con l’aria saputa e mi tira fuori “In a silent way”.
“É nuovo di trinca!” mi dice “appena uscito”.
Mica vero! Il disco è fuori da qualche anno, ma io non lo so, lo compro con le mie sudate 3500 lire e me lo porto a casa.

E come la puntina scivola nel primo solco, inizio a camminare per la strada silenziosa di Miles. E forse non ho ancora smesso.
Allora era stupore per una musica talmente magica da sembrare… impossibile, poi ho capito che non era solo questione di facilità di ascolto, ma della sua profondità abissale.
Allora mi impressionavano i “nomi” (dai, in questo disco ci sono TUTTI: da Wayne Shorter a Chick, da Herbie Hancock a John McLaughlin, da Zawinul a Dave Holland: per uno venuto su a jazzrock il paradiso), poi ho capito che non era questione solo di nomi, ma di dita, di fiato, di cuori e di cervelli. Ci sarei arrivato dopo mille ascolti, ma ci sarei arrivato.

“In a silent way” è fatto di pochissime note (rispetto al furibondo, accecante caleidoscopio di “Bitches brew”, per dire) ma quello che dà profondità ed emozione sono proprio i silenzi, le attese tra una nota e l’altra. Davis, immenso, non ha bisogno di dimostrare niente: non ci regala alcun virtuosismo, se per virtuosismo si intende qualche scala alla velocità della luce, ma un’intensità e un’espressività che è propria solo dei grandi. E i suoi compagni di viaggio stanno al gioco: stiamo parlando di personaggi che alla fiera del “guarda quanto sono bravo” vincerebbero tutti il primo premio e che invece capiscono perfettamente che su una strada silenziosa si cammina senza far rumore. È un album di frasi sussurrate, questo, che obbligano l’orecchio a tendersi per comprendere: nessuno urla, in questo disco. Wiliams carezza i piatti con le bacchette, non si appoggia quasi mai sui tamburi, McLaughlin, Corea e Hancock scivolano su corde e tastiere e devi ascoltare con attenzione per cogliere i loro arpeggi appena accennati, Shorter chiude gli occhi e respira, quieto, nel suo tenore…

Davis è uno che ha urlato spesso, prima e dopo, ma qui sceglie di esprimersi sottovoce. Chissà perché. Forse quel giorno (il 18 febbraio 1969) gli andava così. Forse faceva un freddo cane a New York, forse nevicava. Chissà…

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