Era una questione di nome: troppo delizioso ed acuto per non destare la mia attenzione, che però per lungo tempo non ha voluto approfondire la conoscenza (prima o poi da compiere) con quest'album.

Un giorno però ne scopro le generalità e la cosa comincia a piacermi ancora di più.
Ebbene, fu registrato nel 1966, dal cosiddetto "secondo" quintetto, che vede alle armi i guru del jazz, ossia Wayne Shorter al sax, Herbie Hancock al piano, Ron Carter, contrabbasso, Tony Williams, batteria. L'ensamble principe della storia di questo genere: menti e personaggi colti e rispettabili fino alla lode più pura e spassionata.
Quale dato più stuzzicante di questi bei nomi?

Una volta passati all'ascolto, già dalle prime note capisci che si tratta di una garanzia, la ormai certa garanzia di qualità e bellezza. Te ne accorgi dalla stupenda "Orbits" che gravita essenzialmente sui soli. Questi ultimi di rimando, sono bellissimi.
Ma non c'è niente da fare: le ballad di Miles sono pura poesia senza parole. Anche solo per "Circle" quest'album può essere adorato, lieve come una farfalla, colorata di colori pastello, delicati e raffinati, di una profondità che mira tanto in alto.
Dopo aver sognato ascolti "Footprints" e questo -ormai- standard ti riempie di ammirazione: sembra cambiare completamente sound col solo di papà Shorter, dopo quello di Miles; e poi ancora con zio Herbie, che ci regala note intense, severe, in un intervento breve quanto bello. Insomma si consolida una famiglia che sembra perfettamente coesa ed equilibrata, empatica e rassicurante.

E' per questo che brani quali "Dolores", che rimandano alla tradizione bop che i nostri conoscono a meraviglia, sono suonati con ferma consapevolezza e maturità: sono finiti i tempi di assoli rabbiosi, di note a volte anche stonate, della verve giovanile che spingeva i boppers maledetti a spazzare via dal loro raggio d'azione ogni legge troppo stretta e troppo lenta. Ora non c'è più bisogno di sfoghi. La lezione l'hanno appresa egregiamente questi bravi ragazzi ormai cresciuti e magnificati.

"Freedom Jazz Dance" è decisamente "l'evoluzione del groove", o la sua profezia, che dir si voglia. Si può assaporare il Miles di qualche anno dopo, ma volendo ci si può saziare degnamente anche solo pensando alla immensa carica innovativa (vedo perfettamente un antenato dei funkettosi anni '70) che questi tipini qui apportavano in ogni loro opera.
L'ultima, "Gingerbread Boy", è ancora una proposta molto "up", e Miles sembra divertirsi come un bambino accompagnato dai working di un basso sempre in 4 (tempo tagliato..per intenderci, si corre!), mentre il solo di Shorter al solito appare "serio" ed evocativo. Herbie, sempre alla ricerca di nuove e più ricche combinazioni melodiche, che non possono però non ristorare e gratificare l'orecchio.

Vabbè, avete capito insomma che ascoltare Miles Smiles significa rimanere esterrefatti dalle prodezze esecutive di questi  musicisti (che siedono così in alto!).
I discorsi di tromba, sax e piano si susseguono (sempre in questo ordine) per regalare sempre più forti emozioni, che da una parte ti fanno pensare a quanto di bello può essere inciso su un disco, dall'altra hanno il compito di creare (onestamente e meritatamente) tanta e tanta ammirazione.

Questo disco è un lavoro profondamente raffinato: i tre solisti (alla sezione ritmica non vengono elargiti spazi) dominano la scena con maestria ed erudizione: quest'album è un gran bell'esempio di come si suona. E non intendo solo il jazz: il suonare dopotutto è pur sempre un'emozione, e quando lo sai fare alla grande quest'emozione diventa titanica. Saper suonare significa anche e soprattutto lasciar trapelare ciò che si prova e donarlo a chi ascolta.
E questi cinque individui qui sanno meglio di qualunque altro come si fa.

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