Dei dischi studio di Davis, dopo “Kind Of Blue”, il più grande è “Miles Smiles”. Gli altri numerosi capolavori Davisiani stanno un gradino sotto. E se da un punto di vista puramente melodico il capolavoro del '59 resta inarrivabile, il disco arancione rappresenta un traguardo ugualmente epocale da un punto di vista ritmico.

Siamo nel '66, e la migliore sezione ritmica del mondo suona insieme ormai da tre anni. La prima volta accadde a casa di Davis. Lo sciamano li lasciò per tre giorni a provare mentre lui li ascoltava con l'interfono. L'impassibile Miles, già veterano di molte avventure, restò per una volta davvero basito, in preda all'euforia!

Le sue parole a riguardo, tratte dall'autobiografia: “Seppi subito che questo sarebbe stato un grande gruppo. Per la prima volta da parecchio tempo mi sentii veramente esaltato, perché se già suonavano così bene insieme dopo pochi giorni, che cosa sarebbe successo dopo qualche mese? Cazzo, sentivo quella musica sprizzare energia dappertutto.”. Sul 17enne Tony Williams: “solo a sentire quel piccoletto mi tornò l'entusiasmo. (...) sentivo che questo sarebbe diventato uno dei più grandi figli di puttana che avessero mai suonato la batteria. (...) nessuno ha mai suonato con me bene quanto lui.”. Su Herbie Hancock: “Herbie era un passo avanti a Bud Powell e Thelonious Monk, e non ho mai sentito nessuno che sia arrivato oltre lui.”. Su Ron Carter: “Ron era un bassista con due palle così. (...) sul palco io stavo sempre vicino a Ron perché volevo ascoltare quello che suonava. (...) toccava stare attenti, perché quando quel figlio di puttana cominciava ad andarci giù duro, dovevi veramente sbatterti per riuscire a stargli dietro, altrimenti facevi una figura di merda.”. Mai nella sua vita Miles fu così prodigo di complimenti, proprio lui, famoso per stroncare in maniera nettissima i giovani musicisti emergenti. Ma questi qui erano troppo avanti.

A completare il quintetto il geniale e indecifrabile Wayne Shorter, grande sax tenore il cui arrivo nel gruppo nel '64 fu causa del decollo definitivo della loro musica. Si arricchivano ora di uno strepitoso compositore, con una propensione naturale per l'ambiguità, le allusioni, il non detto. Le sue linee melodiche sono labirintine, la sua visione del ritmo è quella di uno specchio frantumato. Da questo album in poi Wayne si impose come principale compositore del gruppo.

Miles Smiles” è il secondo disco registrato in studio da questa formazione, ed è quello più amato, più venerato, più idolatrato, più studiato dai jazzisti di tutto il mondo per quanto riguarda il concetto di interplay e l'idea stessa di quintetto acustico, qui cristallizzata in perfezione assoluta. A più di quarant'anni di distanza da questa creazione, nessuno è più arrivato ai loro livelli! Se volete la prova, è sufficiente ascoltare “Footprints”, “Circle” e “Gingerbread Boy”. E capirete il perché dell'espressione di Miles sulla copertina... il ritmo non è più scandito rigidamente, ma è una pulsazione che ti entra sotto la pelle; i piatti, i tamburi e le corde del basso sono usati in maniera melodica, liberando la sezione ritmica dal restrittivo ruolo di mero accompagnamento. Ron Carter e Tony Williams non fanno altro che spingere al limite e pressare i solisti, “obbligandoli” a dare il massimo. Herbie Hancock raggiunge forse nei suoi assoli i suoi momenti più brillanti documentati su disco. “Footprints” lo vede creare un minuto tra i più illuminanti di tutta la storia della musica. Solo accordi sincopati e veloci, dal suono corrosivo, acido, usando modulazioni armoniche veramente complesse e imprevedibili. C'è la lezione di Bill Evans in “Kind Of Blue” dietro a tutto questo, portata alle estreme conseguenze. E su “Circle” il giovane Herbie sembra un incrocio tra Chopin e Lennie Tristano! Che dire della front line? Miles vola costantemente nella stratosfera, Wayne è un creatore di suoni unici e di forte tensione intellettuale. E' la nascita del “Freebop”, altrimenti noto come “Outburn”. Un bebop moderno, che ha del free jazz solo la voglia di sperimentare. Sperimentare CON la forma, non senza forma (come certa ottusa avanguardia), piegando le regole non per il gusto fine a se stesso di infrangerle, ma per aumentare esponenzialmente le proprie potenzialità espressive.

Un album di grande spessore, da sentire e risentire tutta la vita, carico anche di quelle piccole imperfezioni negli unisoni di tromba e sassofono che tradiscono la sua natura di spontaneità e freschezza (“Dolores” in particolare); pochissime prove, tutto preso alla prima take! E libertà dei partecipanti come filosofia di un intero gruppo: Tony Williams dopo 7'30'' circa di “Footprints”, anziché chiudere il pezzo, che si stava spegnendo, si rifiuta di porre fine alla sua brama di suonare quel ritmo semplice ma spettacolare, e riparte al galoppo in preda ad un orgasmo Wagneriano, che noi possiamo gustarci in diretta!

Da avere a tutti i costi.

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