Il 1954 fu, per Miles Davis, l'anno della rinascita dopo il brutto periodo della tossicodipenza. Alle sue spalle aveva l'apprendistato alla corte di Charlie Parker, un disco epocale come "Birth Of The Cool" e da lì in avanti una serie di registrazioni discontinue, a tratti eccellenti ("Blue Haze"), a tratti raffazzonate e incerte ("Dig"). Il 1954, si diceva: Davis comincia il breve e fruttuoso soldalizio col giovane pianista Horace Silver e il veterano contrabbassista Percy Heath.

Dopo alcune importanti incisioni con Art Blakey alla batteria ("Lazy Susan", "The Leap", "It Never Entered My Mind" per esempio), l'idea che balena in mente a Davis è quella di riportare il jazz in mano ai neri, di rimarcarne la natura squisitamente afroamericana, in contrasto col suono educato e per bene dei bianchi della West Coast (peraltro assai debitori delle sonorità di "Birth Of The Cool" stesso!), che per un po' avevano rubato la scena ai musicisti newyorkesi. E' così che nasce l'hard-bop, un'evoluzione/continuazione del bebop in veste più semplice, aggressiva, orecchiabile e calda, piena di richiami al blues, al gospel, alla work song e in generale a tutto il patrimonio popolare squisitamente nero. E non solo dal punto di vista strutturale, ma anche e soprattutto da quello espressivo. L'hard-bop, esplosivo e bruciante, diventerà in breve tempo il mainstream jazzistico, e sarà proprio l'album in questione a fare da chiamata alle armi. E "Walkin'", di questa musica, è un manifesto.

L'album comprende due sessioni, una del 3 e l'altra del 29 aprile; in entrambe si nota il lavoro di semplificazione armonica a vantaggio dell'espressività e della melodia, che è uno dei perni dell'estetica Davisiana.

Nelle registrazioni del 29 aprile vediamo all'opera un sestetto straordinario: oltre ai citati Davis, Heath e Silver troviamo J.J. Johnson, insuperabile virtuoso del trombone, e Lucky Thompson, tenorista dalla voce strumentale profonda e vibrante, ideale punto di raccordo fra la generazione di Coleman Hawkins e Ben Webster e quella di Charlie Parker e Dexter Gordon.

Rompe gli indugi la torrenziale title-track, un ritmato blues dal passo sciolto, elastico, aperto dai tre fiati all'unisono che creano un muro di suono degno di una piccola orchestra. Il piano di Silver sottolinea il lavoro dei colleghi con eleganza ellingtoniana, Heath e Clarke imprimono un andamento cadenzato agile e vigoroso, Davis si prende il primo assolo nel suo stile equilibrato ed essenziale, all'insegna dell'irruenza controllata. Il trombettista non usa più quello stile ovattato e lieve che esibiva su "Birth Of The Cool": resta il gusto inconfondibile per la sobrietà, la predilezione per il registro medio, ma stavolta al servizio di frasi fluide, squillanti, di un'esuberanza degna del primo Louis Armstrong. L'assolo di Johnson si innesta con naturalezza su quello di Miles, ne prosegue il discorso fatto di linee melodiche avvolgenti e sinuose, con un calore particolare dato dal timbro cupo dello strumento; infine arriva il sax di Lucky Thompson, straripante, cremoso, sensuale, cui corrisponde un irrobustimento del tessuto ritmico. Horace Silver poi dà un esempio del suo stile pianistico percussivo, risuonante, fortemente ritmico e semplice solo in apparenza, prima che rientri Davis con un esplosivo acuto; e poco dopo tutto il gruppo marcia all'unisono di nuovo chiudendo coi fuochi d'artificio questa incredibile e quintessenziale jam blues di quattordici minuti.

A seguire troviamo "Blue 'n' Boogie", il classico di Dizzy Gillespie di cui il sestetto fornisce una versione incendiaria: velocissima, ritmicamente indiavolata, con una sintonia telepatica fra i solisti e un crescendo di eccitazione e adrenalina difficile da eguagliare. Il primo solo è ancora di Davis, ed è da notare come preferisca mantenersi controllato e dosare bene note e pause, in un contesto dove Fats Navarro o l'astro nascente Clifford Brown si sarebbero avventurati in serpentine di note ad alta quota. Finito il turno di Johnson, con un assolo ricco di belle frasi staccate, il tema centrale dà il via all'impressionante eruzione sassofonistica di Lucky Thompson, una maratona di inventiva, gusto, blues al calor nero (...) che porta l'eccitazione al culmine, a tratti sottolineato da un vigoroso riff di tromba e trombone. Dopo un fulminante passaggio "funky" di Silver si chiude con il frenetico tema. Sette minuti intensissimi di jazz esuberante, bollente, vulcanico, intenso e orecchiabile: hard-bop, si diceva.

La sessione del 3 Aprile vede protagonisti, oltre a Davis ovviamente, la solita super-ritmica Silver/Heath/Clarke e il misconosciuto altosassofonista Dave Schildkraut, una sorta di Charlie Parker meno nervoso, un po' alla maniera di Paul Desmond. Questo quintetto sembra un laboratorio che studia le possibilità timbriche dei suoni ovattati nel contesto dell'appena definito hard-bop. Per tutta la sessione, Davis suona con la sordina, mentre Clarke con le spazzole: il sound complessivo risulta sfumato, crepuscolare, fascinoso. Tre brani, tre velocità diverse per testare la nuova soluzione: "Solar", un tempo medio molto ritmato e scattante su cui la tromba disegna suggestioni surreali e paesaggi lunari, dotato di una bellissima parte centrale in cui la tromba fluttua sospesa su basso e piatto della batteria prima che Silver rientri e si ritorni a velocità di crociera; "You Don't Know What Love Is", archetipo della ballata Davisiana, assorta e lirica, penetrante, con un tema magnifico sviluppato egregiamente dal solo Miles; e "Love Me Or Leave Me", velocissimo flusso di immagini sonore dove il tema viene variato ricorsivamente e il proscenio cambia di continuo, fra tromba, sax, batteria (splendidi gli scambi fra Davis e Clarke) e pianoforte (Silver conferma in retrospettiva la sua statura di gigante e, all'epoca, di stella in ascesa). La bontà della sessione è implicitamente confermata da successivi lavori del trombettista di Alton, che approfondirà e svilupperà ulteriormente le idee seminate qui dentro. E Schildkraut, il misterioso sassofonista, si assicura in questo modo una nicchia nella storia del jazz.

Per concludere, "Walkin'" è un'opera cardinale nella storia di Miles Davis e del jazz in generale: è l'album che dà una svegliata al jazz newyorkese, che definisce il linguaggio dell'hard-bop, che fissa nuovi archetipi e farà da ariete di sfondamento per la riscossa dell'autentico jazz nero - i grandi complessi di Horace Silver (non a caso presente qui dentro), di Max Roach e Clifford Brown, di Art Blakey, e le mutevoli formazioni di Sonny Rollins seguiranno a ruota con altri splendidi, imperdibili album, fino all'alluvione.

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