Un'opera immortale, un album che se lo metti ancora oggi nel lettore spacca il culo esattamente come nel 1992: stessa potenza, stessa freschezza, stessa spregiudicatezza.  

I primi anni novanta. . . anni decisamente più sani di quelli da noi oggi vissuti. Basti pensare al fatto che il video di "N. W. O", primo fulminante singolo di questo lavoro, lo si poteva tranquillamente gustare in TV addirittura durante le ore diurne, una cosa inconcepibile se si pensa alle programmazioni odierne delle emittenti che si definiscono musicali. Ma non solo: anni in cui, grazie anche all'avvento del tanto bistrattato grunge, avveniva un processo di fondamentale svecchiamento all'interno della scena metal, dove le sonorità ovattate ereditate dagli anni ottanta si andavano a sporcare di alternative, hardcore, industrial, punk, rock settantiano, stoner.

Fra i fautori di questa rivoluzione troviamo senz'altro i Ministry, che nel panorama musicale hanno compiuto un percorso davvero peculiare, un iter inverso rispetto al trend comune che vede generalmente le band emanciparsi dalla violenza incondizionata della gioventù per approdare alle forme più ragionate e riflessive della maturità. Questi pazzi, invece, partono dall'elettronica (basti pensare alla disco del trascurabile "Twich") e, mediante un progressivo indurimento dei suoni, arrivano a confezionare capolavori come "The Land of Rape and Honey" e "The Mind is a Terribile Thing to Taste", facendosi alfieri di un esplosivo connubio di  industrial e metallo pesante, come nessuno aveva mai osato prima, aprendo di fatto la strada all'intero movimento. La formula viene a perfezionarsi ulteriormente con questo "Psalm 69: The Way to Succeed & the Way to Suck Eggs", dove la componente metal sembra prendere il sopravvento, senza peraltro sminuire la verve sperimentale che da sempre contraddistingue il duo americano. Un monolite di irruente violenza e di sagace diagnosi sociologica (con quel tocco di ironia e di senso per la provocazione che non guasta mai) che ha saputo anticipare le atmosfere alienate e deviate di gente come Fear Factory o Strapping Young Lad.

Se da un punto di vista concettuale la proposta si discosta di poco da quanto precedentemente sfornato dal gruppo (non si fa che moltiplicare ed appesantire le chitarre), l'estrema cura dei particolari e l'attenzione maniacale al dettaglio (sia in sede di arrangiamento che di produzione) rende questo lavoro un vero capolavoro formale, che rappresenta una fase di maturità pienamente raggiunta. Al Jourgensen e Paul Barker, di fatto, sembrano essere divenuti pienamente consapevoli e padroni delle proprie potenzialità, e nonostante per tutto l'album tiri un'aria di anarchia e di riottosa contestazione (ricordiamoci che sono gli anni di Bush senior e che da sempre la musica dei nostri prende di mira la facciata di ipocrisia e la corruzione che caratterizzano l'American Way of Life, sia a livello sociale che politico), il tutto suona terribilmente ragionato e calcolato: una paradossale ed unica miscela di immediatezza e riflessione, in cui niente sembra essere lasciato al caso, dove ogni nota pare stare al proprio posto e i vari elementi (gli assalti thrash metal, i campionamenti elettronici, gli impasti noise, i momenti più orecchiabili) sembra bilanciarsi come mai è accaduto in passato. Un formula così ben calibrata ed azzeccata, quindi, che è stata in grado di mettere d'accordo un po' tutti, dal metallaro più intransigente all'amante dell'alternative, aspetto, questo, che evidentemente non è passato inosservato ai quei vecchi volponi del music business. Non è un caso, infatti, che ben tre video siano stati estratti da questo album, che certo non si può definire commerciale nel senso comune del termine.

Già dai primi devastanti secondi della citata "N. W. O. " ci rendiamo conto che i nostri fanno sul serio, puntando molto, se non tutto, sull'impatto e sul groove. Questa song può essere assurta come vero simbolo dell'album, un violento attacco volto a destabilizzare l'establishment che marcia inesorabilmente al passo spietato dei possenti riff di chitarra e che parla con la voce effettata (al limite del growl) di Al Jourgensen, istrione grottesco e beffardo, qui più che mai rabbioso e teatrale. La successiva "Just One Fix" conferma l'impressione rincarando ulteriormente la dose: una fucilata di fottuto thrash che tutt'oggi amo spararmi a volumi inusitati nei momenti di insana esaltazione, dove gli Slayer sembrano stringere la mano ai Killing Joke; un brano che peraltro fa capire da dove spunti fuori gente come i Ramstein. "TV II", addirittura sconfina nel grind, con una drum-machine sparata a tremila, continui stop and go, e una voce arrochita di megafono che ci sputa in faccia parole incomprensibili, ma sicuramente non benevoli nei nostri confronti. Se "Hero" ci riporta ai fasti di "The Mind is a Terribile Thing to Taste" (riaggiornandoli naturalmente agli attuali canoni di violenza), "Jesus Built My Hotrod" è una piacevole sorpresa, una divertente rock'n'roll song, dal groove irresistibile ed impreziosita dalla voce pulita e rockabilly di Gibby Haynes (dei Butthole Surfers), che svela il lato più ironico e spassoso del gruppo, peraltro mai celato.

Nella seconda parte dell'album i toni si smorzano, come se si accedesse ad un piano più meditativo dell'opera, una sorta di viaggio nella parte oscura dell'America, volto a sondare il disagio, il malessere sottocutaneo, spesso non del tutto consapevole, che serpeggia nella società, e che scaturisce dall'alienazione, dal continuo lavaggio del cervello da parte dei media, dal conformismo forzato a certi modelli comportamentali, dall'ipocrisia della religione, dalle difficoltà legate alla reale sussistenza. "Scarecrow", ipnotica e serpeggiante, è un lento ed ossessivo giro di chitarra protratto per otto minuti ed infarcito dalle vocals raschianti e paranoiche di Jourgensen. La titletrack è invece l'apice concettuale dell'album, una song che si articola in parti cadenzate e stacchi assassini, ai limiti del death metal, bombardata dal caos massiccio dei campionamenti che si sovrappongono, e pervasa dalle atmosfere apocalittiche dei cori di chiesa e dei predicatori invasati. L'assalto rumoristico e marziale di "Corrosion" ci riporta invece al caos primordiale della prima facciata, questa volta però riletto nella forma dissonante del noise chirarristico, dei samples e delle drum-machine programmate a cascata, un caos che si stempera nei suoni disconnessi e minimali di "Grace", che chiude l'album all'insegna dell'inquietudine e della più totale alienazione.

Non geniale ed innovatore come i suoi illustri predecessori, forse un po' ruffiano e piacione negli intenti, "Psalm 69" è tuttavia un album così ispirato, così ben suonato, così ben prodotto che non può che meritarsi il massimo dei voti. Purtroppo costituirà anche l'ultimo vero colpo artistico di una band che ha saputo cambiare il volto di un certo modo di intendere e fare musica. Il successivo "Filthy Pig", se certo ha il coraggio di non cavalcare il successo di una formula così vincente, è senz'altro un'opera deludente e segna l'inizio della parabola discendente della carriera del gruppo, che culminerà nell'opera di bieco riciclaggio degli ultimi lavori "House of the Molé" e "Rio Grande Blood", che non fanno appunto che recuperare l'appeal commerciale di questo album imprescindibile ed irripetibile.  

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