Moby arriva a quota quindici album in studio, e lo fa cavalcando l’onda di una prolificità mai così accentuata.

Tre i dischi pubblicati nell’ultimo biennio, più un’autobiografia (“Porcelain”), per un’artista mai domo, sempre attendo alla contemporaneità ed evidentemente ferito dalla piega politica presa dal proprio paese natìo. Delusione, disillusione, rabbia e pessimismo, tutti riversati in questo nuovo “Everything Was Beautiful, And Nothing Hurt” (citazione da “Mattatoio n. 5” di Vonnegut), che arriva a cinque anni dall’ultima prova in solitaria (il discreto “Innocence”) e a solo un anno dal secondo disco a firma Moby & The Void Pacific Choir, “More Fast Sound About The Apocalypse”.

Licenziato come al solito tramite Little Idiot/Mute, il nuovo lavoro abbandona completamente le urgenti sfuriate a colpi di electro rock della doppietta di dischi coi Void Pacific Choir, per tornare ad un linguaggio musicale più affine al Moby di fine anni novanta/metà duemila, quello dell’esplosione commerciale con il capolavoro “Play” e con l’ottimo, successivo “18”. I tempi però cambiano, il signor Melville Hall ha venti anni in più sulla schiena con i quali fare i conti, quindi le carte in tavola si sono inevitabilmente mescolate.

Come messo ben in chiaro dal bellissimo lead single “Like A Motherless Child” (rilettura di un canto classico della tradizione afroamericana), il nuovo Moby setta le coordinate partendo da un impianto base prettamente trip hop, che viene arricchito via via con influenze gospel (il succitato singolo), pop, rock, soul, elettroniche.

La clamorosa “Mere Anarchy” è un’opener sontuosa, uno dei migliori pezzi del Moby post-“Play”, ed apparecchia perfettamente la tavola; anche la successiva “The Waste Of Suns” è da brividi, cupa e plumbea come da manuale. “The Tired And The Hurt” e “Falling Rain And Light” faranno felici i nostalgici del Play sound, “The Ceremony Of Innocence” punta su di un piano circolare ed insistente, ed in generale Moby non si lascia ammaliare dalla smania di una sperimentazione fine a sé stessa, confezionando un disco scuro e cupo ma piuttosto accessibile, dove non c’è vergogna nel rifinire i brani con piccole concessioni al pop e al rock (“The Last Of Goodbyes”), ma sempre con classe e coerenza.

Coerenza che lo porta a chiudere col pezzo più scuro e trip hop del disco, “A Dark Cloud Is Coming”, arricchito da una piacevole venatura blues.

A 53 anni Richard Melville Hall ci regala il suo miglior disco da anni a questa parte, intriso di ispirazione e tantissima classe, a coronare un percorso sempre più coerente e mai domo. Una piacevole sorpresa in questo primo scorcio del 2018.

Miglior brano: “Mere Anarchy”

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