Artista sfigato per antonomasia, Modest Mussorgsky. La sua fu una vita brevissima (1839-1881), tutta genio e sregolatezza, da tipico artista ispirato ma discontinuo, che sembra inventata apposta per farci uno di quegli sceneggiatoni drammatici in costumi dell'epoca, che ultimamente fanno molta audience.

Tante intuizioni, ma in pratica neanche un'opera compiuta, al punto che anche su questa memorabile raccolta di pezzi pianistici, ispirata ad una vera mostra di quadri vista da un'amico, hanno messo le mani prima il maestro Rimsky-Korsakov, per renderli eseguibili, e poi, in modo decisivo, Maurice Ravel, a cui si deve l'impareggiabile versione orchestrale che da sempre è associata al titolo "Quadri di un'esposizione". Un cane sciolto, il povero Mussorgsky, cronologicamente un tardoromantico, ma già dotato di un'immaginazione pittorica che un autentico impressionista come Ravel non poteva lasciarsi scappare.

L'ascolto ideale di questa composizione immortale prevede il confronto tra la versione originale pianistica, che dà un'idea vaga dei lampi di genio di Mussorgsky, e quella definitiva orchestrale, che dà invece un'idea ben precisa della gamma infinita di colori che è stato possibile ricavare da questi lampi di genio attraverso un'adeguata capacità di orchestrazione. Se c'è tempo, per curiosità si può sentire anche la versione rock di quest'opera, nota come "Pictures At An Exhibition" e suonata, non male, da Emerson, Lake & Palmer. Il tema della passeggiata ("Promenade") oltre ad essere universalmente noto, è il collante fondamentale che, specie all'inizio, tiene uniti molti dei brani, ciascuno raffigurante un quadro, e ci accompagna in pratica quasi fino in fondo, anche se verso la fine riemerge sempre più trasfigurato, appena riconoscibile. È un motivo semplice, così realistico che sembra di sentire veramente i passi del visitatore della mostra, che passa da un quadro all'altro, e anche da uno stato d'animo all'altro.

Si parte con "Lo gnomo", un pupazzo di legno, deforme, che avanza zoppicando, descritto da una musica grottesca e piena di sobbalzi irregolari, per certi versi affine a certe atmosfere di Tom Waits, che secondo me potrebbe trarne un'ottima versione moderna. "Il vecchio castello" è invece un motivo cantabile, anche se tremendamente malinconico, affidato al mesto borbottio del fagotto e poi alla voce più calda del sassofono; "Tulieries" ci porta dentro un quadro luminoso, di giardini e giochi di bimbi, ma subito "Bydlo" (per me il quadro più emozionante dell'intera galleria) ci fa ripiombare in un tetro clima invernale, in una grande pianura desolata, attraversata con faticosa lentezza da un povero carro trainato da buoi. Il crescendo di questo brano, introdotto dal suono cupo e profondo della tuba, è veramente di una drammaticità impressionante. Non si fa in tempo a rasserenarci con un quadro più brioso come il "Balletto dei pulcini nel loro guscio" ed ecco che a turbarci di nuovo arriva il "Dialogo tra due ebrei polacchi", uno ricco e ciarliero, a cui dà voce una tromba scoppiettante, quasi jazz, l'altro povero e disperato, che si esprime tramite un motivo dolente suonato dagli archi. Un dialogo quasi onomatopeico. Un altro forte contrasto è dato da un quadro sereno come "Il mercato di Limoges" che di botto e senza alcun preavviso precipita nelle macabre profondità delle "Catacombe", in cui risuonano fortissimi e spettrali gli echi degli ottoni. "Cum mortuis in lingua mortua" non risolleva granché il morale: vi riappare il tema della passeggiata iniziale, o meglio quel che ne rimane, poco più che il suo fantasma. Un bello scossone da questo clima ossessivo di morte ce lo dà "Baba Yaga", in cui ritorna a prevalere il senso del grottesco: la musica è tirata e movimentata, un ottimo trampolino per il gran finale trionfale, "La grande porta di Kiev", nota anche come punto di grande difficoltà esecutiva, dove le orchestre mediocri si impantanano e ogni strumento sembra andare per conto proprio. La conclusione di questo ultimo quadro, dopo una preparazione in cui la tensione si accumula gradualmente, è di una potenza devastante, e coinvolge davvero in modo forsennato tutta l'orchestra.

Se l'orchestra in questione si chiama Berliner Philharmoniker e a dirigere c'è Herbert Von Karajan, le leggendarie difficoltà di questo episodio, come di tutti i "Quadri di un'esposizione", sembrano inesistenti, ma è pura apparenza. E se la descrizione dei "Quadri" è affidata ad un semplice pianoforte? Bè, allora il compito si fa più duro, e non basta neanche un virtuoso come Lazar Berman a nascondere i limiti della versione pianistica, che pure è quella originale. Il buon Liszt diceva che con un pianoforte si può sostituire un'intera orchestra, ma ai suoi tempi orchestre come quella prevista da Ravel per quest'opera non erano immaginabili, e in certi frangenti, soprattutto nel maestoso quadro finale "La grande porta di Kiev" il pianoforte arranca, riuscendo solo in parte ad esprimere la potenza sonora di questo episodio.

Tuttavia i "Quadri" meritano di essere ascoltati anche per pianoforte, se non altro per farsi una vaga idea della prima forma che ebbero nella mente, geniale ma un po' confusa, di Modest Mussorgsky.

Carico i commenti... con calma