È Ragnarök. È l'apocalisse. È armageddon. È la fine dei giorni. Nulla sarà più come prima. La luna, timorosa, si offusca e perde un pezzo di sé mentre pian piano si crea un'atmosfera incantata. Uno scenario d'eccezione per quello che, a cose fatte, si è dimostrato un evento eccezionale. Un anfiteatro romano, degli scavi archeologici, una serata pregna di umidità e la luna, poco meno di piena, che gioca a nascondino.
A quello che c'è stato prima darò poco peso, perché i Giardini di Mirò sono stati bravini ma non mi hanno colpita e la cosa che mi è rimasta più impressa dei De Rosa è stato il loro marcato accento scozzese, mentre il resto mi è scivolato addosso senza lasciare il benché minimo segno. Ma dopo, signori, DOPO... tutto ha cessato di essere com'era. Tempo e spazio hanno smesso di avere importanza e c'erano solo musica, luci e battiti.

Uno stornello popolare anticipa l'ingresso dei cinque scozzesi, spiazzando un po', ma subito loro rimettono le cose a posto "Yes, I Am A Long Way From Home"... ed ancora più lontano porteranno il pubblico, rapito. Il secondo posto tocca "Friend of the Night", evocativa come non mai. Si spoglia poco a poco finché non rimane solo il pianoforte, gli altri strumenti si fermano, così come si ferma il mio cuore, aggrappato da qualche parte nella gola. Le luci si fondono con il fumo di scena, blu, verdi, fucsia, e di soppiatto comincia a calare una nebbia degna della più profonda Val Padana, che contribuirà a rendere il tutto ancora più magico. "Travel Is Dangerous" sottolinea oltremodo quanto l'acustica sia perfetta e la musica arrivi da dovunque, circondando totalmente gli spettatori. I colpi secchi della batteria echeggiano precisi nel mio petto (ed in quello di tutti, immagino), in qualche punto indefinito tra sterno e clavicola sinistra. Ho un secondo cuore e pulsa. "I Know You Are But What Am I?", tra le note delicate dello xilofono e l'irruenza delle distorsioni; questo sono i Mogwai e noi siamo gente felice. Ed ancora, tra pezzi recenti e storici: "Glasgow Mega Snake", che si erge possente, con le chitarre tirano su un muro sonoro, mattone per mattone, "Acid Food", "You Don't Know Jesus", "Ratts of the Capital". Mai un momento di calo, non una imperfezione. "We're No Here" arriva attaccata al pezzo precedente, senza che il feedback abbia dato un solo attimo di tregua, e le chitarre grasse, untuose, colano distorsione da ogni singolo accordo. Oltre alla magia musicale ci si mette anche quella scenica e le luci, manovrate egregiamente per tutto il concerto, con un bagliore improvviso fanno riapparire i pini che costeggiano il palco, inghiottiti dalla coltre di fumo e nebbia.
Il feedback, naturalmente, accompagna l'uscita dal palco dei Mogwai. Il tempo di respirare e rientrano, per regalarci "Mogwai fear Satan" (ma penso che sia più plausibile il contrario) e "2 Rights Make 1 Wrong", finale un po' sottotono per quello che è stato un concerto magnifico.

Rimango seduta ancora un paio di minuti , basita ed un po' incredula. Mi alzo, mi stiracchio e controllo di esistere ancora: la testa è ancora sulle spalle, le orecchie languono nel silenzio, il cuore a battere nel petto è tornato ad essere uno solo. La nebbia è ancora densa sugli scavi e ci regala gli ultimi istanti di un paesaggio lunare, prima di tornare alla normalità e prima che questo concerto cominci a sembrare solo un bellissimo sogno.

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