Mancava ancora una rece relativa al quinto album (1983) di questo tosto sestetto southern rock della Florida. Rimedio io, segnalando subito che è l’unico della loro copiosa discografia a non avere la copertina grossolanamente fantasy, in genere piena di nerboruti guerrieri brandenti asce (hatchet). All’inizio le firmava tal Frazetta, poi non so chi. La tamarraggine comunque regna cospicua anche in questa istantanea dei nostri, scattata in uno di quei parchi a tema western che costellano gli Stati Uniti: polvere, cartucciere, fucili in spalla e pistole nei foderi, panze al vento, spolverini e gli immancabili Stetson a falde larghe sui capelloni unti… c’è tutto.
La proverbiale rozzezza esibita, da America di provincia profonda, non si riflette però più di tanto nella musica. Gli ancor giovani Hatchet erano infatti un gruppo organizzato e disciplinato, con un suono si irruente, ma ben prodotto e arrangiato, capace di far convivere tre chitarristi uno fianco all’altro, a turno in assolo spalleggiati dagli altri, o talvolta in duetto, dietro ad una ritmica solida ed efficiente.
La componente tanghera della formazione veniva comunque elevata dal frontman Danny Joe Brown, quello co’ la panza de fora in foto. Era dotato di un vocione unico, brutale ma con un suo sicuro fascino primitivo. Il diabete e l’epatite, contratti fin da ragazzo, l’avevano tenuto lontano per qualche anno e per un paio di album, ma questo lavoro segna il suo temporaneo ritorno e il gruppo ne guadagna in termini di personalità e grinta.
L’album in questione è da avere (mi riferisco agli appassionati di hard rock, di rock sudista, di buone e robuste chitarre in armonia a tracciare sanguigni assoli) non foss’altro perché contiene il capolavoro di carriera del sestetto vale a dire la ballata, ma con le palle, “Fall of the Peacemakers”.
E’ una faccenda di otto minuti, divisa in due sezioni: la prima è la ballata vera e propria, gagliardamente sostenuta da un mirabile arpeggio in LA minore, arricchito da eleganti singulti della ritmica, e pervaso a turno dalla vociaccia cavernosa di Danny e dagli assoli di intermezzo, stringati ma molto lirici, di due dei chitarristi. Dopodiché a metà brano vi è un break, il ritmo raddoppia e parte una serrata, stratosferica stratificazione di chitarre soliste, armonizzanti fra di loro oppure lanciate in soli a rotazione; il tutto con una costante, notevole carica melodica ed epica.
Le liriche del pezzo raccontano il dispiacere e la tristezza per alcune tragiche morti di gente emblematica (Lennon, Kennedy)… è la “Caduta dei Costruttori di Pace” annuncia il titolo, sfruttando l’assonanza e la vicinanza in inglese fra “passo” e “pace”: in definitiva un pezzo della madonna, per me immortale.
Non così immortali i poveri Molly Hatchet: quasi tutti deceduti ad oggi, i musicisti di quest’album. La formazione peraltro ancora esiste, tenuta insieme malamente da un paio di elementi subentrati a fine anni ottanta. Vivacchiano appoggiandosi pesantemente, nei concerti, al repertorio iniziale di questi bravi sudisti, fra cui risplende questo “No Guts… No Glory”, ovvero niente budella (noi italiani diremmo niente fegato), niente gloria. Pace a loro.
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