L’improvviso dissertare malinconico della voce di Paula Morelenbaum in “As praias desertas” è uno zampillo di malinconia nello stomaco, forse insopportabile se ascoltato nel momento sbagliato… . Magari quando l’hai persa…

Banana Yoshimoto, grande scrittrice giapponese dice che nel flusso musicale, rassicurante e melanconico, di Sakamoto c'è
qualcosa in grado di adagiare l'animo nel suo luogo originario, nel proprio mondo, e lì, c'è sempre un immenso universo contemplativo venato di tristezza; ma nel profondo scaturisce la serenità, come quando si guardano le stelle in una terra aspra e selvaggia".

Ho sempre avuto un debole per Sakamoto, che sia epico, glamour, intellettuale, spocchioso o invece quieto e suadente, la sua musica vibra di una genialità che attraversa ogni classificazione di genere. Parole che suonano ancor più dense di significato se riferite al minimalismo lunare, quasi spericolato direi, di “Casa”, puramente acustico e realizzato con il solo piano, violoncello e voce di Jacques e Paula Morelenbaum ed incentrato su una delle musiche culto del ventesimo secolo, la bossa-nova, e sul suo compositore più significativo: Antonio Carlos Jobim.
Si narra che il progetto sia nato da una visita di Sakamoto a casa Morelenbaum, collaboratori di Jobim nei suoi ultimi anni, dove esiste un vecchio pianoforte su cui abitualmente suonava il Maestro; l’emozione scaturita dal contatto con i tasti ancora segnati dalle sue impronte ed una spontanea aggregazione musicale dei tre, ha poi trovato espressione in questo prezioso lavoro che esprime una profonda sintonia tra la sensibilità di Sakamoto e la dolcissima "saudade".

Il disco è bello, molto bello: pregno di soffusa eleganza, di strabiliante gentilezza interpretativa, si compone di 15 canzoni fra le più classiche dell'epoca - da "Amor em paz" a "Chega de saudade", da "Vivo sonhando" a "O grande amor" - ma anche di pezzi meno inflazionati - "Derradeira Primavera" o "Imagina" - che non cadono nella prevedibile trappola della nostalgia o, peggio ancora, del "come eravamo" (leggeri, colti, raffinati) in quegli anni lontani e beati.
In realtà l’obiettivo è di trattare le canzoni di Jobim come "lied" di Schumann, come melodie di Debussy, vale a dire con un rigore quasi accademico che renda il cantabile e apparentemente semplice, congiunto all'estasi della classicità.

Insomma al disotto della apparente ovvietà del progetto, si esprime, la continua ricerca del cambiamento che Mr. Sakamoto coccola e vezzeggia come la più misteriosa delle sue Muse ispiratrici. L’alchimia del trio si esprime nella contrapposizione tra la voce sussurrata e sensuale di Paula e la compostezza sobria del violoncello di Jacques Morelenbaum, la penetrazione sinuosa del piano di Ryuichi nella bossa che, senza colpo ferire, la fa sua con il suo tipico intreccio sonoro nel quale reminiscenze neoromantiche ed impressioniste, venature jazzistiche si incontrano con la solarità delle docili canzone di Jobim.
Un'analisi delle singole song forse sarebbe ridondante, lo spirito ed il senso estetico di questo lavoro, infatti, consiste essenzialmente nella rivisitazione colta di melodie tanto popolari, nel tentativo di isolarne l'anima più intima ed autentica scevra, quindi, da sovrastrutture di natura puramente estetica lasciando, così, il maggiore spazio possibile alla suggestione soggettiva dell'ascoltatore, che viene quasi invitato a sondare la profondità misteriosa dell'Ispirazione di ciascuna di queste perle.

Un disco facile da amare.

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