Ci sono due cose che mi fanno amare il blues sopra (quasi) ogni altro genere musicale.

La prima è la semplicità della forma. Chiunque, in pochi minuti, è in grado di apprendere e fare proprie le classiche 12 battute, e così ritrovarsi in mano la chiave di accesso al 99% delle canzoni tipicamente blues.

La seconda è la partecipazione inclusiva. Penso che, proprio perché il blues è musica semplice, immediata e diretta, e quindi alla portata di tutti sia per quanto riguarda la tecnica sia per quanto riguarda il sentimento, tutti possano sentirsene coinvolti e partecipi.

Per dire, anche la mia compagna, che all'inizio trovava il blues musica tremendamente monotona e priva di qualsiasi interesse, si è poi ricreduta, al punto da prendere costantemente l'iniziativa e trascinarmi a qualsiasi concerto dove ci sia il minimo sentore blues, meglio ancora se in circostanze improbabili. Per come la penso io, siamo giunti a questo punto perché anni fa la coinvolsi nella mia passione di suonare la chitarra e la prima cosa che le imparai fu lo shuffle blues (musica semplice, immediata e diretta); e poi perché, dopo una raccolta di John Lee Hooker (quello tremendamente monotono e privo di qualsiasi interesse), le feci ascoltare un paio di dischi dal vivo, uno era il «Live at The Regal» di B.B. King, l'altro era un live, senza altre indicazioni, di Muddy Waters, entrambi accomunati dalla incredibile partecipazione del pubblico.

Anche in questo caso, visto che del live di B.B. King c'è già traccia, io ci provo a scrivere qualcosa di quello di Muddy Waters, con grande piacere, perché è in assoluto uno degli album dal vivo che mi piace di più, a prescindere dal genere, anche più di «Live at The Regal».

Cosa mi piace tanto di questo disco?

Presto detto, l'energia elettrizzante che lo percorre tutto, dall'inizio alla fine, senza nessun calo di tensione.

C'è tanta energia sul palco, dove Muddy Waters è accompagnato alternativamente da Johnny Winter, Bob Margolin e Luther Johnson alla chitarra, Charles Calmese e Calvin Jones al basso, Willie Smith alla batteria, Pinetop Perkins al piano e James Cotton all'armonica: si tratta, in sostanza, della stessa formazione che aveva inciso nel 1977 «Hard Again», a mio avviso l'album più potente inciso da Muddy Waters, per intenderci quello aperto da «Mannish Boy».

«Mannish Boy» apre anche il live e mette subito in chiaro che quest'uomo che sta sul palco, piazzato davanti al microfono colla chitarra a tracolla, è il più grande uomo sulla faccia della terra e che nessuno ci provi ad intralciargli la strada: una delle canzoni più – più qualsiasi cosa vi viene in mente – mai concepite, insieme a «I'm a Man» di Bo Diddley e «Hoochie Coochie Man» di Willie Dixon, e se mai mi chiedessero 5 canzoni per dire cosa è il blues, per me ci sarebbero tutte e tre. A seguire, sei pezzi tra originali e rifacimenti, fino alla chiusura colla ripresa del classico «Baby Please Don't Go» e i quasi dieci minuti di «Deep Down in Florida», anche questo tratto da «Hard Again» e minutaggio raddoppiato rispetto alla versione di studio, a testimoniare che tutti quelli sul palco avevano troppa carica in corpo per pensare di scendere giù e mettere fine al concerto.

Erano carichi i musicisti sul palco, erano carichi fino all'inverosimile quelli sotto al palco.

Ecco quello che, forse pure più della grandiosa musica suonata da Muddy Waters e dal gruppo che lo accompagna, mi fa amare così tanto questo album, sentire quanto sono esaltati, scatenati, quelli del pubblico, l'urlo, il ruggito con cui rispondono ad ogni invocazione di Muddy Waters, fino a trasformare quella serata in un eccitante botta e risposta sopra e sotto al palco, piuttosto che in un rituale concerto.

«Am I a man, Johnny?»

«YEAAAAAHHHHH!!!!!»

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