La collisione del meteorite “cosmic rock” dei Tangerine Dream sull’area metropolitana-sonora di Bristol ha determinato un impatto tale da deflettere l’asse di rotazione terrestre e provocare una nuova era glaciale osservabile a latitudini che lambiscono appena il Circolo Polare Artico… può nel gioco parabolico della storicizzazione dare un’idea immaginifica delle musiche che i gruppi di casa FatCat riescono a creare, e ironicamente a sottolineare l’importanza dei termini di paragone per inquadrare proposte per vari motivi “sfuggenti”.

Qualcosa di analogo accadde verso la fine degli anni ’80, quando un’altra band islandese, i Sykurmolarnyr, poi ri-denominati Sugarcubes diedero alle stampe un’ibrido e indefinibile lavoro punk-pop postmoderno, (tastiere oblique, voce femminile più recitativo “disturbante” maschile, influenze che spaziavano dal dream pop a certa elettronica) intitolato “Life’s Too Good”. Considerando la successiva evoluzione di tali scenari periferici “rispetto all’asse Londra-New York” (Alberto Campo) si può forse retrospettivamente “leggere” l’opera prodotta da questi atipici artisti parafrasando uno slogan politico “pensare globalmente, agire localmente”: tradotto in musica ciò significa “racchiudere” la propria realtà locale nel contesto di forme e strutture musicali “universali”, o almeno in parte mutuate da modelli anglo-americani. Ne è un aspetto a suo modo significativo l’edizione del precedente lavoro dei Mùm “Finally We Are No One” in duplice lingua: inglese e islandese.

Il morbido bitstream fluente a tratti come certa techno-trance alla Biosphere “osservata alla moviola”, liquido e rallentato fino al fermo-immagine, investe la cadenza elastica in controtempo di certo trip-hop “alla Lamb-Portishead” (tipo “Glory Box” ultimi 30 secondi o “Cowboys” incipit), o del dub-elettronico di bands come Audio Active: ciò che appare evidente soprattutto nelle parti percussive. Pur essendo volutamente impossibile distingure tra ciò che è suonato, campionato o (ri)creato in studio, conta l’effetto: la suggestione sinestesica (“ascoltando” sembra di “vedere” manti erbosi, ghiacciai e pozzanghere), il minimalismo estetico (niente grandi temi: titoli come “non aver paura, hai solo gli occhi chiusi” o “tra due colline uno specchio d’acqua”…) avvolto da una rarefatta atmosfera d’ambiente (Brian Eno e vari epigoni più una sorta di “Pagan Poetry” meno maestosamente lirica e più sottilmente leggiadra), e un ritratto, impressionista, delle gradazioni di luce nell’arco della giornata sui paesaggi islandesi, che trafigge e colora le nuvole, proietta ombre e scintilla sul mare, ottenuta con le “hyper ballads boreali” di Bjork abbinate a una tavolozza melodica low-fi dolce e tenue.

Questi delicati ritratti en plein air degli scenari esteriori rivestiti delle più intime emozioni formano un involontario concept-minimalista e quasi autobiografico, alla maniera di un diario segreto: “Summer Make Good” in realtà suona più triste e introspettivo dei dischi precedenti (“ Abandoned Ship Bells” , “ Away” ), e il drumming, più deciso e dinamico che in precedenza ne scandisce maggiormente i passaggi sofferti, come in “Whiping Rock Rock” e “Nightly Cares”.

“L’orizzonte è nello specchio, l’orizzonte è dentro me” … tuttavia emotivamente calato nel mood di una tenue, raccolta e malinconica attesa della stagione successiva…

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