Mutualità della Sofferenza.
Al di là del pienone annunciato dalle scritte "sold out" ai botteghini, non sono in tanti ad aspettare le litanie dei tre ragazzi inglesi (alla fine 4500 in tutto). Si sono fatti aprire la strada dai Cave In, ma non vi narrerò nulla di questi quattro poveretti catapultati davanti ad un pubblico non adatto a loro e mortificati da un suono pessimo e pastosamente incomprensibile.
Non voglio infierire ma quando hanno deciso di cimentarsi in una cover dei Led Zeppelin ho deciso che sarebbero stati più gradevoli se ascoltati tramite il filtro offerto dai muri del cesso e mi sono recato negli appositi locali...
Inizia il concerto vero e proprio e, come spesso accade, il suono assume un contorno ben più definito, massiccio e potente, ben miscelato tra gli strumenti e la voce immediatamente calda di Bellamy. Il muro di Marshall vibra con più decisione e vivacità ora che è sollecitato dai tre ragazzi inglesi.
Il concerto inizia con Bellamy al piano elettrico per "Apocalypse Please" (il brano che apre il loro ultimo disco "Absolution"), con il leader pronto ad imbracciare la chitarra per intonare "Hysteria". Due pezzi contrapposti coi quali il ragazzo del Devon (circa 200-250 miglia da Londra) ci dichiara sfacciatamente che lui, da navigato musicista, è in grado di reggere la scena sia con uno strumento che con l'altro.
Fa di più, perché col terzo brano "New Born" si cimenta prima col piano e poi con la chitarra nella stessa canzone. Solo che qui, inevitabilmente, iniziano le magagne. Clamoroso è l'errore nel passaggio dalla prima parte della canzone (morbida ed eseguita col piano) alle strofe vere e proprie, molto aggressive (eseguite con la chitarra), passaggio ben distinto tuttavia ben miscelato nel disco ma malamente eseguito dal vivo con uno stacco imprevisto e la conseguente perdita del tempo da parte della sezione ritmica. Dopo un picco di decibel così alto urge darsi una riposata ai timpani: ecco la ballad "Sing for Absolution", nella quale il basso leggermente distorto agglomera il suono d'insieme con un risultato decisamente gradevole.
Il concerto scorre velocemente tra rock duro, una deliziosa fantasia al piano di Bellamy e ballad tradizionali, un gioco studiato di alti e bassi, di cambi di velocità, ritmo e volume che il pubblico sembra apprezzare molto.
Pur se padrone della scena, però, la dinamica e contemporaneamente triste melodia che fluisce dalla suadente voce di Matt non può continuativamente coprire le lacune strutturali di alcuni arrangiamenti.
Questo problema di fondo del gruppo britannico, evidentissimo grazie al ripetuto ascolto negli album della band (e massicciamente presente anche nel loro ultimo "Absolution"), è piacevolmente attenuato nella performance live, ove l'eccitazione del pubblico e la trascinante grinta dei ragazzi in aggiunta ad un suono potente e generoso, renderanno l'irripetibilità della prestazione artistica dal vivo un momento da ricordarsi senza pecca alcuna, quasi da re-interpretarsi da ognuno quei fan che mai accetteranno lacune sonore o errori dei propri beniamini.
Il pubblico vuole vedere nei Muse gli eroi che, narrando del tempo decadente e dell'amore offeso, svelando il loro verbo persino "in every toilet" (Muscle Museum), giungeranno a condurre le schiere di seguaci verso la paranoica libertà dell'uomo contemporaneo. E loro non si risparmiano. Non è possibile imputare ai tre il disimpegno, però permane un fastidioso distaccamento dal pubblico che "si trascina da sé", piuttosto che essere trascinato dalla band inglese.
La parte più poetica della band è rinvenibile quando, tramite l'abuso di espressioni ostinate e ripetute, quali "fall, fall down, falling away", Matt e soci ci trascinano in una turbolenta discesa verso l'oblio, la depressione, la perdita della speranza e dell'amore, della voglia di vivere, salvo uscirne prepotentemente con grida di vendetta per risalire verso la luce. Ma la speranza che risale verso la luce non è quella di un mondo migliore bensì il desiderio che la decadenza sia collettiva, che il dolore sia comune, che il singer non sia il solo a soffrire, ma che come lui tutti gli altri debbano necessariamente sottoporsi a ordalie d'ogni genere.
Una sorta di pessimismo cosmico leopardiano trascinato in chiave rock e riformato in una progredita forma di mutualità della sofferenza.
Sicuramente i ragazzi danno il loro meglio quando si cimentano nei pezzi più vecchi (come Muscle Museum, che tranne un suono di chitarra troppo nascosto dall'abuso di flanger e delay è stata veramente trascinante oppure nella più recente Plug In Baby che separa la fine del concerto dai due bis), ove si nota la loro maggiore confidenza con le strutture delle canzoni.
Complessivamente un discreto concerto, nulla di trascendentale, ma almeno i ragazzi hanno superato quasi indenni lo shock del pessimo secondo disco. Vorrei veramente vederli prodotti da un grandissimo, che gli spieghi bene cosa significa composizione e cosa sia, differentemente, l'arrangiamento e superi la spregevole contrapposizione facilmente udibile tra linee pre-registrate e accordi suonati dal vivo.
I tre ci sanno fare e necessitano solo di un piccolo aiuto. Prego per loro perché si facciano dare il numero di telefono di Brian Eno o di Robert Fripp...
Carico i commenti... con calma