“The World We Left Behind” non sarà il canto del cigno dei Nachtmystium. Ce lo dice, contraddicendosi, il leader Blake Judd che, incasinato fra droga e problemucci con la giustizia, e sempre meno motivato nell’affrontare gli impegni crescenti richiesti dalla “macchina” prodigiosa da lui messa in moto, aveva annunciato lo scioglimento della band prima ancora dell’uscita effettiva dell’album, per poi ritrattare il tutto immediatamente dopo.
Non è chiaro in che forma e con quali modalità proseguirà il cammino del combo americano, ma “The World We Left Behind”, scritto e completato da una band che si pensava oramai defunta, non ci fornisce anticipazioni salienti sul futuro, rappresentando una parentesi interlocutoria che prosegue sulla scia di una parabola che, dopo aver toccato il suo picco con i due “Black Meddle” (con i quali i Nachtmystium si sono accaparrati un posto di riguardo nella “hall of fame” del black metal tinto a stelle e strisce), aveva iniziato a discendere con il deludente “Silencing Machine” (del 2012).
“The World We Left Behind” conferma da un lato il valore indiscusso di Judd come autore/interprete, ma certifica dall'altro la pochezza dei Nachtmystium di oggi come ensemble, e probabilmente questo sarà uno dei punti che più di altri dovranno essere rivisti nella rifondazione del progetto: la presenza di musicisti demotivati e dalla scarsa personalità è infatti il vero punto di debolezza di un album che mostra, nonostante questo, più di un aspetto positivo.
L’ispirata prova vocale di Judd è uno di questi aspetti, aiutato anche da una produzione che mette il suo latrato infernale al centro di tutto. Una produzione, tuttavia, che non valorizza l’operato della band, finendo per essere troppo pulita e priva di mordente, e quindi poco pertinente ad un contesto di questo tipo (andrebbe spiegato a chi siede dietro il mixer – tale Chris Wisco – che un album black metal non deve suonare così, a meno che non si abbia a che fare con signori del calibro di Steinar Sverd Johnsen, Jan Axel “Hellhammer” Blomberg e Kristoffer Rygg – insomma, a meno che in studio non vi siano gli Arcturus e non si stia registrando un album come “Aspera Hiems Symfonia”!)
Pressoché trascurabili, quindi, le prove del bassista John Porada (praticamente inesistente, anche se suoi saranno i pochi contributi in termini di scrittura al di fuori dello stradominio di Judd) e del tastierista Dustin Drenk (presente qua e là, ma senza mai imporsi veramente); e se alle sei corde Scare Crow paga lo scotto di dover ricoprire il ruolo della spalla (godendo quindi di poca autonomia per esprimersi e dare un contributo veramente rilevante), dietro alle pelli Sam Shroyer, che pure è dotato tecnicamente, si rende responsabile di una performance decisamente prevedibile. Oltre questo piattume (mi vengono in mente gli ultimi lavori degli Shining), svetta quindi il carisma del mastermind Blake Judd, espressivo dietro al microfono, creativo alla chitarra: fucina inesauribile di riff e melodie accattivanti (con la quantità di riff profusi in questo disco altre band ci avrebbero costruito carriere intere), un po’ come l’amico Wrest (Leviathan), altro genio del male straripante di idee, già compagno di sventura nel progetto Twilight (ottimi per altro) .
E quindi le nove tracce che compongono “The World We Left Behind” sono una sequela di intuizioni vincenti alternate a banalità assortite, aspetto, questo, che rende l’ascolto sì scorrevole ed a tratti avvincente, ma al tempo stesso privo di quell’incisività, di quella compattezza e di quella continuità che abbiamo rinvenuto altrove nella discografia dei cinque americani. Per il resto ci troviamo di fronte al tipico black da stadio in stile Nachtmystium, sorta di black’n’roll dalle forti tinte seventies (umore che si rispecchia perfettamente nell’illustrazione di copertina), generoso di refrain e ritornelli di facile presa, senza comunque disdegnare la ferocia e/o il gelo tipici delle band della Scandinavia a cui i Nostri guardano continuamente (Burzum e Dissection su tutti, ma anche Katatonia e Carpathian Forest), né rinunciare al ricorso misurato a certe soluzioni più ricercate pescate dal rock psichedelico e persino dall’elettronica.
Se il brano introduttivo, la strumentale “Intrusion”, già mette in bella mostra pregi e difetti che caratterizzeranno il platter (un bel riff sfrigolante presto appesantito dall’ingresso spompato di basso e batteria, il tutto che si trasforma infine in una trottata metallica assai scontata), “Fireheart” porta avanti questo dualismo fra imbarazzanti fraseggi rock in cui i cinque sembrano fare il verso ai Placebo o agli Strokes (!!!), aperture elettro-acustiche di matrice doom ed ispirati riff di vero black metal (uno di questi, quello portante, forse scippato ai connazionali Wolves in the Throne Room – si veda il finale di “Wanderer Above the Sea of Fog”, travolgente opening track di “Black Cascade”).
Cosa salvare quindi? Molti spunti sparsi qua e là, “Voyager” nella sua interezza (brano dalla cadenza depressive, percorso da struggenti fraseggi di chitarra ed illuminato da un bell’assolo nel finale), i travolgenti cambi di tempo e gli intrecci chitarristici su cui si dipana “Into the Endless Abyss” (la traccia più tirata, che parte alla velocità della luce per decelerare progressivamente fino a stabilizzarsi su ritmiche trascinanti, arricchite dall’apporto di una arcigna voce filtrata); o l’intenso finale della title-track, affidato a solismi di chiara marca floydiana (o, per meglio dire, evocanti certi sublimi impasti sonori uditi dalle parti dell’Enigma Silenzioso degli inarrivabili Anathema). Da salvare anche l’amarezza, il desiderio di rivalsa, quel senso di sfogo liberatorio di cui sono pregne le liriche, di evidente matrice autobiografica, matrice che trova il suo apice nell’ultimo brano in scaletta, quell’“Epitaph for a Dying Star” in cui farà capolino persino una voce femminile: sorta di “black-ballatona”, in cui tutto vorrebbe essere/suonare “definitivo & categorico” (i tempi sono medi, l’andamento maestoso, l’umore melodrammatico), ma che tuttavia finirà con il pagare lo scotto di uno sviluppo eccessivamente prevedibile.
Si fosse trattato veramente di un album postumo, tutto questo avrebbe avuto più senso, e nella nostra valutazione saremmo stati maggiormente clementi, andando da un lato ad evidenziare l’innegabile sincerità che pervade molti passaggi, perdonando dall’altro quelle slabbrature/dispersioni che contraddistinguono, nel bene e nel male, ogni album postumo. Ma poiché la storia dei Nachtmystium non finisce qua, sarà bene che Blake Judd (che evidentemente non può reggere l’intersa baracca sulle sue sole spalle) recuperi le proprie forze, rifletta bene sulla direzione da intraprendere e si circondi soprattutto di musicisti motivati ed all’altezza della situazione.
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