«Il comico si annida nelle cerniere della storia come una ruggine corrosiva. Esso nasce infatti da cambiamenti radicali nella scala dei valori, per cui ciò che era reale e dunque sacro ieri, diventa irreale e dunque dissacrato oggi.» (Alberto Moravia su "Io sono un autarchico")

La trama è semplice, ma non segue un filo lineare. Non vi è intreccio, né vero e proprio sviluppo narrativo (come nel successivo "Ecce Bombo"). La struttura è orizzontale, ad incastro. Il giovane Michele (Nanni Moretti) viene abbandonato dalla moglie (Simona Frosi) insieme al figlio di pochi anni. Viene arruolato da Fabio (Fabio Traversa) per fare l'attore in una sua rappresentazione di teatro sperimentale. Dopo un terribile training, iniziano le prove. Un critico saccente (Beniamino Placido) viene contattato affinché possa assistere allo spettacolo. Nonostante il discreto successo ottenuto, il gruppo si assottiglia, dopo un inutile tentativo di instaurare un dibattito col pubblico.

Potrebbe sembrare strano, e infatti lo è. Un esordio dal costo di appena 3 milioni e mezzo di lire, attori non-attori (amici, parenti, futuri intellettuali), un giovane regista ventenne di ceto sociale medio-alto. Siamo nel 1976, il Cinema italiano è in crisi. I giovani autori faticano ad emergere e i "vecchi leoni" (Sordi, Tognazzi, Manfredi e Gassman) stentano a bissare il successo qualitativo di un tempo. Quando a Nanni Moretti viene bocciata la sceneggiatura "Militanza Militanza", scritta nel '75 assieme a Fabio Traversa, non gli resta che fare tutto da solo, armato di cinepresa super8 e una buona dose di determinazione. Questo è "Io sono un autarchico", un manifesto di ribellione, palese dichiarazione d'intenti dove il buon Nanni si diverte (arrabbiandosi) a sparare a zero su tutti, non soltanto sul cinema di allora. L'aspetto più sorprendente è la critica (la "presa in giro", dirà Moretti anni dopo) del proprio ambiente socioculturale e politico. Il film dipinge (ir)realisticamente la controcultura giovanile degli anni '60 confluita poi nei '70, il velletarismo, la noia, l'alienazione degli ancora giovani reduci del '68, "una commedia di costume ambientata tra i contestatori" (Piero Scaruffi). Il teatro "sperimentale" di cantina viene ridicolizzato da una serie di scene esilaranti: A quei tempi "Per un teatro povero" di Jerzy Grotowsky era il testo capitale di un'intera generazione di teatranti d'elite. Ed ecco che Moretti mette in scena il cosiddetto training, sorta di allenamento prettamente fisico che dovrebbe garantire il perfetto equilibro del corpo e della mente, che qui si riduce ad una lunga ed estenuante gita in montagna dalla quale alcuni non faranno ritorno a casa. Acerba e amatoriale quanto si vuole, ma è difficile negare l'efficacia di tale giocosa desacralizzazione. L'intera sequenza fa parte di quei tipici momenti morettiani in cui non si capisce se si stia assistendo alla realtà o si è come immersi in una dimensione onirica: il gruppo di sedicenti attori viene attaccato dagli indiani (a Roma!), addirittura il capocomico spara ad un compagno per liberarlo dalla sguaiata disperazione che lo opprime, uccidendolo. Il cineasta romano tornerà a simili scene "surreali" nei film futuri, sospesi tra reale e immaginifico, il tutto incorniciato in uno stile assolutamente "naturalistico".

Già in questo primo lavoro le riprese sono quasi tutte a camera fissa. In verità, più per i limiti tecnici della cinepresa che per sentita scelta stilistica, nonostante il noto apprezzamento del regista verso questo modo di "incasellare" le scene, molte delle quali, infatti, si esauriscono in unica inquadratura.

"Io sono un autarchico" rappresenta un caso unico nella cinematografia italiana.

Nota: Sebbene il film venga semplicisticamente accostato ai "woodyallenismi" del coevo Allen (etichetta che Moretti non riuscirà a scrollarsi di dosso nemmeno nei film successivi), i due autori, a modesto avviso di chi scrive, non posso essere seriamente paragonati. L'autore americano vanta un retroterra culturale assai diverso, senza contare che il Woody Allen che tutti conoscono (quello pieno di manie, tic, nevrosi) ha fatto il suo ingresso solo l'anno successivo, nel fondamentale (e altrettanto celebre) "Annie Hall" (1977). Ragione per cui sarebbe ingeneroso liquidare Moretti a semplice epigono di Allen, nonostante le diverse rassomiglianze tematiche riscontrabili tra i due.

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