"Diatribes", diatribe: come quelle che sorsero tra i fan del combo inglese all'uscita di questo album nel 1995. A dire il vero, anche all'epoca della svolta death cinque anni prima, con l'ottimo "Harmony Corruption", ci fu qualcuno che storse il naso, ma la qualità di quell'album e del successivo "Utopia Banished" zittirono tutte le critiche, dimostrando che i Napalm Death dettavano legge sia nel grind che nel death. Ancora discussioni nel 1994, "Fear, Emptiness, Despair" è ancora un discone death, penalizzato in parte da una produzione moscia.

Con "Diatribes" la musica cambia. Letteralmente.

Se pensate che questo sia un tipico disco grind, siete davvero fuori strada. E' un grind in senso lato, in fondo il vocione da orco di Mark Greenway è sempre una terremotante garanzia. Le chitarre maciullano, ma è un'azione lenta, meditata, c'è una cura dei dettagli che per i Napalm Death è totalmente nuova. Le novità non finiscono qui. In alcuni frangenti emerge limpido il solido suono del basso di Embury con i suoi riff ciclici ed estremamente coinvolgenti.

Ma soprattutto sono praticamente scomparsi i blast beats, presenti solamente in "Ripe For The Breaking" e nella titletrack. Non che questo sia un male. Già dalla opener si sente -oltre ad una produzione bombastica- che sarà un disco diverso. Un disco che non ha paura di scontentare qualcuno, con uno stile di batteria che in molti frangenti ha il sapore di quel nuovo metal che spopolava in quegli anni, solo che qui è all'ennesima potenza e non lascia scampo.

In definitiva un potente e denso concentrato di metal estremo, che fa scapocciare a più non posso, e che può diventare uno dei propri dischi preferiti se si ha un'apertura mentale sufficiente per accettere i modernismi.

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