Incoraggiati dall’affermarsi dell’heavy metal commerciale (Bon Jovi, Def Leppard, Van Halen…) i Nazareth nel 1986 smettono di divagare musicalmente fra il possibile e l’opportuno offerto degli anni ottanta e si dirigono verso l’unica e chiara direzione di un hard rock “attuale” per il tempo, cioè stereotipato e anonimo, mettendosi insieme a tanti altri nel codazzo dei grandi del genere class, AOR, pop metal o come lo vogliamo chiamare.
Chitarre dunque iper compresse e devitalizzate, ritmi rigidamente detonanti, pochissimi droni vocali melodici, strasentiti fra l’altro, a colorare il ritmo senza intaccarlo più di tanto. Il vocalist Dan McCafferty non ha alcun problema a sovrastare con la sua emissione decisa e nerboruta questo nuovo tipo di produzioni confuse e poco dinamiche, dove tutto suona sempre forte e quindi non c’è respiro ritmico, melodico, armonico. Ma il piacere dell’ascolto latita, che senza soul & passion anche strumentali il rock’n’roll non provoca mai il giusto godimento. Ti scuoti un po’ mentre lo ascolti, forse, poi passa e va e non ti resta niente dentro.
Insomma, molti meno sintetizzatori rispetto agli album immediatamente precedenti e chitarre al grande proscenio, epperò con suoni di merda. Il pestare della batteria poi non concede pause e sfumature… swing e dead notes, ma cosa sono mai? Avanti tutta verso il muro del suono. La chitarra del membro fondatore Manny Charlton viene resa irriconoscibile dalla produzione, ma anche dalla scarsa vena del musicista o meglio dalla sopraggiunta conflittualità con i suoi storici compagni, meno idiosincratici di lui alle spinte del mercato e ai "nuovi" suoni. Infatti getterà la spugna qualche anno dopo, andandosene per sempre.
Il lavoro della chitarra, del basso, della batteria sul 90% di questo disco risultano essere quanto di più anonimo si possa trovare: logicamente professionali, ma pochissimi momenti del loro miscelarsi solleticano il cuore e istigano il piacere dell’audiofilo rocchettaro. Per buona parte dell’album solo “legna”, grande attacco, grande rumore ed i riff sono ridotti ai minimi termini, scheletrici si può dire. Qualcosa si salva, ad esempio la finale “A Veteran’s Song” una ballata brumosa con voce e chitarra a rubarsi il proscenio, l’episodio migliore del disco. Mi correggo: l’unico.
Nazareth alla frutta, pare. Invece terranno duro, e si riprenderanno. Ha da passare la nottata, e passerà.
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