A volte non serve nemmeno conoscere la domanda per arrivare alla risposta, basta una sensazione istintiva, di quelle capaci di regalarci una certezza particolare. Così mi è bastato un ascolto fugace per capire senza chiedermelo che questo disco non sarà di passaggio nei miei giorni, ma al contrario mi accompagnerà per anni. Non farà la fine di tante piccole meteore scintillanti, ormai divenute spenti ricettacoli di polvere dopo entusiasmi precari. Già dalle prime note della commovente ballata introduttiva del disco – "Mary" – ho maturato questa sensazione, forse per il sempiterno fascino della chitarra acustica, oppure per l’hammond sullo sfondo in lontananza, ma più probabilmente per l’emozionante voce di Neil Diamond generosamente elargita con un calore unico, forte e limpido come un whisky invecchiato.

Dunque, in barba ai cultori del "tutto è già scritto" esistono ancora oggi dischi sorprendenti, indimenticabili classici per il domani pur essendo legati ad una consolidata tradizione musicale del ieri. "12 Songs" è proprio così, speciale al punto che mi sento di azzardare l’ipotesi di un piccolo capolavoro, anche perché è un disco che si muove tra lievi contrasti: intimo, malinconico, profondo, deciso ed allo stesso tempo vitale, pulito, riconciliante. Un disco che sa parlare con semplicità e profondità, risplendendo per classe e intensità, usando davvero pochi e misurati ingredienti. Molto di questo risultato si deve all’intelligente produzione di Rick Rubin, non nuovo del resto a questo genere di operazioni avendo curato in passato l’indimenticabile "American Recordings" di Johnny Cash. Rubin, difatti, ha alleggerito intelligentemente la sezione ritmica, contornando la musica di Diamond di pochi elementi (pianoforte organo, chitarre, archi, raramente fiati), ponendo dunque in primo piano la componente più importante di questa musica, ovvero la voce del songwriter americano, profusa con grande carica emozionale sentita dalla prima traccia a quella conclusiva. Quest’ultima tra l’altro – "Delirious Love" - merita una menzione particolare per la presenza di Brian Wilson, che nostalgicamente fa rimpiangere tempi ormai lontani.

E mi compiaccio del fatto che a donarci oggi un disco del genere sia un signore che, superati i sessant’ anni, forse qualcuno aveva dimenticato, mentre altri probabilmente pensavano che avesse già dato tutto quello che poteva dare. Invece eccolo qua con la sua voce profonda, baritonale ad insegnarci che il passare del tempo non sempre fa male. A volte ti disintegra lentamente, altre volte ti regala esperienze e ricordi che, però, solo pochi riescono a tradurre in una poesia che non si può dimenticare.

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