Noblesse oblige, ed ecco recensito l'universalmente riconosciuto nadir artistico di Neil Young: il beffardo "Everybody's rocking".
Pubblicato nel 1983, pochi mesi dopo il discretamente inascoltabile tour de force elettronico di "Trans", tale album presentò un Neil in versione rockabilly, sempre più felice nel demolire scientificamente il suo mito. Venne accolto dalla convinzione che l'orso canadese si fosse ormai bevuto il cervello e anche oggi la critica è unanime nel considerarlo la tappa più oscena del calvario younghiano negli anni 80.
In effetti il buon Neil in quel periodo si portava dietro svariate croci, e la lucidità non era apparentemente delle migliori: le scorie di un decennio vissuto a velocità bruciante, svariate utopie svanite, i drammi familiari (due figli gravemente malati), e i consueti scazzi col music business, in questo caso col suo nuovo datore di lavoro David Geffen.
Dopo aver pubblicato il suo "Metal Machine Music", quale miglior seguito di "Trans" che un album stilisticamente orientato verso il 1954? Tutti volevano che Neil tornasse a fare un bel disco rock? Ecco servito "Everybody's rocking", registrato in appena un giorno.
Onestamente, l'album fa sorridere: accompagnato per l'occasione da una band nuova di zecca, gli Shocking Pints del vecchio compare Ben Keith (al sax!), Neil compie un grottesco viaggio verso le radici. Almeno dura 25 minuti, e scivola in un batter di ciglio, a differenza di "Saved" o "Knocked out loaded" del Dylan dello stesso periodo, o del temibile country conservatore del successivo "Old ways". Neil propina sia sguaiate versioni di classici come "Betty's got a new pair of shoes" o "Bright city, big lights", sia inediti ironicamente old-fashioned come "Cry, cry, cry" o "Kinda fonda wonda", conditi da ironici coretti doo woop e chitarre Gretsch, arrivando persino a citare i coniugi Reagan nella demenziale title-track. L'ostinata volontà di Young è testimoniata dal modo in cui ha rovinato un gioiello come "Wanderin", qui proposto in una versione davvero scialba: quella ascoltata nel recente "Live at Fillmore East" dimostra che tale brano avrebbe brillato in qualunque album coi Crazy Horse.
Ma la classe non è acqua, e almeno un asso è tirato fuori pure in questa partita: parliamo di "Payola blues". "This one's for you , Alan Freed… " recita Neil nell' attacco. Proprio quell' Alan Freed, il dj più famoso degli anni Cinquanta, colui che fece conoscere la musica nera agli americani, che contribuì ad allentare la segregazione razziale, e che di fatto inventò il termine "rock and roll", caduto in disgrazia per una squallida vicenda di bustarelle (payola, appunto) da parte delle majors per i passaggi radiofonici. Capro espiatorio di un sistema ben oliato, Freed morì da solo, malato e alcolizzato, nei primi anni 60. Il brano è semplicemente geniale: una sfavillante sintesi r'n'r, in grado di realizzare un esilarate break temporale, al grido di "perché le cose che fanno oggi ti farebbero apparire un santo" e sancendo il tutto con un verso sintomatico quale "I've got the payola blues/ even though I already paid my dues".

Alan Freed si aggiunge dunque alla galleria di straordinari personaggi storici raffigurati nella mitologia younghiana. Un'epica spesso sui generis, soggetta agli umori del suo autore, idealizzata e persino simpaticamente apocrifa (un po' come il Stendhal de "La Certosa di Parma"), come spesso dimostrano i suoi voli pindarici sui lidi dell'America pre-colombiana.
Una visione della Storia in cui sovente sono protagonisti i perdenti, o coloro che hanno perso tutto, come Richard Nixon: massacrato da Young quando era il simbolo dell'America più reazionaria, ma al quale il Loner concesse l'onore delle armi, una volta caduto in disgrazia, nella celebre "Campaigner", al grido di "Even Richard Nixon has got soul". Decisamente meglio però l'anima di Alan Freed: questo tributo, il migliore possibile, è decisamente l'unico aspetto per tramandare ai posteri un lavoro perfido, fisiologico tassello nell'intricato puzzle del suo autore, ma certamente dispensabile.

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