Il rapporto tra Neil Young e il cinema è sempre stato fecondo, oltre che basilare per comprendere molte sfaccettature del pianeta Loner, in primis certe dinamiche del suo processo creativo. Chi non ha presente la toccante "Philadelphia", che chiudeva in maniera sublime l'omonimo film di Demme, o il sinistro accompagnamento per "Dead Man" di Jarmusch? O ancora il capolavoro "After the goldrush", ispirato da una sceneggiatura di Dean Stockwell, e il tormentato rapporto con l'attrice Carrie Snoodgress, protagonista di celeberrime canzoni come "A man needs a maid" o "Motion pictures (for Carrie)". Nonostante sia sempre stato perversamente alacre nella sua produzione musicale, Neil ha poi spesso trovato il tempo di cimentarsi in prima persona dietro la macchina da presa. Il suo percorso cinematografico è tuttavia sempre stato parallelo a quello musicale, costituendo un approfondimento di complesse opere quali "Rust never sleeps" o "Greendale". Del resto, egli si è sempre presentato in tali vesti con lo pseudonimo Bernard Shakey, il suo alter ego da celluloide (Shakey significa "tremolante", riferimento alla sua epilessia).

Uscito nel 1972, "Journey through the past" fu il primo, timido "ciak" del buon Neil: una sorta di documentario che ripercorreva la sua vita, dagli albori nella prateria canadese ai fasti di CSNY, e con relative visioni al contesto e al sogno americano dell'epoca: un film ruvido e schietto, ma con pochi momenti davvero brillanti in senso squisitamente artistico (si pensi all' omaggio-parodia di "Lawrence d'Arabia", coi cavalieri mascherati che si materializzano dal nulla in una spiaggia misteriosa).

 La relativa colonna sonora fu l'immediato successore di "Harvest", e costituì il primo dei tanti suicidi commerciali che hanno costellato la carriera di Neil: fu non a caso il primo album pubblicato dopo la morte per overdose di Danny Whitten. A parte frammenti orchestrali e una citazione dal "Pet Sounds" dei Beach Boys, si assiste a una stridente e surreale rivisitazione del repertorio younghiano, che inizia a presagire quel sound sfibrato e allucinato della successiva "Doom trilogy". Si trovano versioni dal vivo di classici del periodo Buffalo Springfield e CSNY, volutamente in versione lo-fi e arruffata, e c'è spazio per alcune alternate take di classici di "Harvest": sintomatica la coda di "Alabama", con Neil che si rivolge a David Crosby: "I fucked up the words. But that's okay, the words I fucked up can be fixed" e parte il celebre attacco di "Words (Between the lines of age)". Unico pezzo inedito è "Soldier": una desolata e scarna ballata pianistica che calza a pennello, mettendo in primo piano l'inconfondibile e fragile falsetto di Neil.

In definitiva, "Journey through the past" è il classico gingillo da completisti: non a caso il suo autore non ne ha mai autorizzato la ristampa su CD, come per il successivo "Time fades away". Ma se per quella lucente perla grezza si tratta di una terribile ingiustizia, essendo una delle pagine più oscure e commoventi nel catalogo Young , in questo caso ha probabilmente avuto ragione il Re Luna.

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