Ciao a tutti e ben trovati su queste pagine di cinema!

Erano anni che attendevo l'occasione per recensire, con e per Voi come mio solito, quello che reputo il miglior film ad episodi degli anni '80 tutti e, probabilmente, la migliore fra le commedie italiane dell'epoca, anche in rapporto al relativo insuccesso di pubblico che non ha tuttavia impedito alla pellicola di divenire un piccolo-grande classico, soprattutto per chi ha avuto l'accortezza di registralo in Vhs o Dvd, visto che per anni è stato irreperibile sul mercato ufficiale degli home video.

Giustamente vi chiederete quale sarà mai l'occasione che, oltre a far l'uomo ladro, ha rifatto Il_Paolo recensore, ed è giusto, doveroso che ve la venga a dire anche se attiene ai fatti miei: gli è che qualche settimana fa, causa nuvola vulcanica sui cieli di mezz'Europa, il Vostro autore di fiducia ha dovuto far ritorno a casa non con un comodo volo a bordo di un Mad Dog, ma, interrotto a metà il trasvolo aereo, prendendo a nolo un'autovettura e risalendo con essa buona parte del nostro splendido Stivale.

E' stato in quel viaggio che mi è tornata l'ispirazione, complice anche una sosta ai bagni di un Autogrill, ed un'anabasi che, indefettibile e vendicativa come davvero sa essere la vita, mi obbligava ad andare in auto contro il sole che abbagliava, socchiudendo a tratti gli occhi per lasciare spazio alla memoria di questo film, prima di riprendere il comando del mezzo e giungere, stanco ma sereno, alla mia parca mensa, in un sabato in cui non s'è potuta coltivare nemmeno l'attesa della festa a venire.

Ma veniamo alle cose serie, ovvero al film: girato da Neri Parenti nell'89, con ammiccamenti agli imminenti mondiali di calcio, "Fratelli d'Italia" sembra, di primo e superficiale acchito, il classico riempitivo all'interno della pur brillante carriera del regista, ricorrendo a quello che i più superficiali ritengono un vecchio espediente della commedia all'italiana, ovvero il film ad episodi: singole storie brevi, che forse non starebbero in piedi da sole e non giustificherebbero, a fronte della povertà del pretesto comico, un film di durata maggiore; intrecci affidati a tre attori di sicuro appeal per diverse fasce geografiche di pubblico, contornati da caratteristi professionali che rendono sotto il profilo produttivo molto più di quanto non costi la loro messa in opera; vicende slegate, e povere dal punto di vista dell'ordito, unite in apparenza da un filo di tenue concordia nell'espediente che le collega: qui, almeno senza simbolismi Kieslowskiani ma con concretezza tutta italica, una Fiat Tipo, all'epoca modello mainstream e sogno tutt'altro che impossibile dei medio-borghesi che costituivano il pubblico tipo di questi lavori.

Il tocco di genio, non so quanto involontario, ma sicuramente avvertito da me e dai miei accoliti, sta, tuttavia, nel profondo trait d'union che lega e definisce la struttura delle singole storie, fino a farle divenire, in ultima analisi, la stessa storia, la rappresentazione dello stesso personaggio colto in tre profili e prospettive diverse, amplificandone i contorni come in un movimento futurista alla Balla o Boccioni, che, non a caso, celebravano l'automobile su cui viaggiano i protagonisti del film come il maggior portato della modernità, lo strumento in grado di far saltare la percezione dello spazio e del tempo, e, con essa, anche l'auto-percezione dell'individuo, dilatandone potenzialità ed azioni fino a toccare i paradossi d'un Einstein, di un Tesla, in un "Philadelphia Experiment" alla aglio, oglio (sic) e peperoncino, se non vi piacciono né il panino con la meusa né il risotto alle fragole di Triuggio.

Lo stesso personaggio, tipo umano, man machine, è rappresentato, in questo lavoro, da Christian De Sica, che apre le danze nel primo episodio, in direzione Roma-Golfo Aranci, d'ambientazione vacanziera in perfetto anticipo sui tempi neocafonal d'oggi, da Jerry Calà, tombeur de femmes nella direttiva Verona-Berghem, ed, infine, da Massimo Boldi, nella finale triangolazione Milano-Roma, capitale in cui tutto sembra avere inizio e fine.

Il gioco sottile di Parenti e dei fratelli Vanzina, qui sceneggiatori, è quello dell'esaltazione apparente della mimesi e del desiderio di immedesimazione nell'altro, mossa dall'invidia (da in-video: guardo verso, guardo con sospetto, ma anche, con un piccolo calembour: guardo "in video", con una televisione catalizzatrice di sogni), che costituisce probabilmente uno dei tratti antropologici ricorrenti in diverse categorie di cittadini italiani: e così, De Sica, popolano romanaccio con accento inconfondibile ed amici ancor più impresentabili al seguito (fra cui l'adatto Fabrizio Bracconeri), invidia i ricchi agiati ospiti in Sardegna e tenta di assimilarsi a loro, quantomeno nominalmente (cambiando nome e linguaggio: forse, nei Vanzina, res sunt consequentia nominum), per conquistare l'appetibile Turchese De Benedetti, forse parodia di Azzurra Caltagirone (ma non saprei dire con esattezza), fino ad essere smascherato, riaffermando con orgoglio, il Sé sociale, linguistico e nominale; Calà, vitellone veronese che si trastulla nella piazza scaligera dedicata a chi, come Dante, meglio di tutti ha saputo descrivere i tipi italiani passati e forse contemporanei, invidia il proprio datore di lavoro alla Sauli (parodia, anche qui nominale, della Bauli; e qui un ricordo affettuoso va a Gian Fabio Bosco di Ric & Gian, che ci ha lasciato da poche settimane), mimetizzandosi nel tentativo di concupire la di lui signora (una procace Sabrina Salerno che, nella vita, vive davvero in Veneto ed è sposata con un imprenditore), e finendo per essere punito tanto nelle ambizioni sessuali, quanto nel desiderio di essere socialmente accettato come un dirigente industriale (e, non a caso, venendo retrocesso a mero chauffeur, professionalmente e sessualmente sottomesso); nell'episodio finale, certamente il più riuscito in un'apoteosi comica che quasi stordisce, anche grazie all'apporto di Maurizio Mattioli e Angelo Bernabucci (i "teribbbili!" tifosi romanisti che sarebbero poi riapparsi in un episodio analogo del tardo "Tifosi", ‘99), il milanese e paleo-berlusconiano Boldi è costretto dagli eventi a mimetizzarsi in quello che, espressamente ed in maniera più netta rispetto ai precedenti episodi, è il suo alter-ego ed al contempo il suo nemico, venendo anche qui punito e castigato dagli eventi man mano che cerca di svincolarsi dalla situazione, riaffermando la sua individualità ed il suo tifo milanista, rispetto ai suoi occasionali compagni di viaggio che lo credono, o maliziosamente fingono di crederlo, romanista e ultrà.

Seguendo i singoli racconti in un continuum, emerge insomma la necessaria compenetrazione fra mimesi e punizione, che in De Sica è colta sul piano sessuale e sociale, in Calà sul piano sessuale e del rapporto con il potere, fino a trascendere, in Boldi - mutilato nella sua sessualità con effetti cartoonistici - in una dimensione universale, ove si consideri che il nostro diviene, nella catarsi finale del film, vittima designata dei suoi nemici (i romanisti), di quelli che un tempo erano gli amici (milanisti), e del potere stesso (la polizia).

Ne emerge, al di là dei lazzi e dei motteggi che pur nobilitano un film fra i più divertenti dell'epoca, un apologo morale in cui l'essere Altro da Sé, l'invidiare, il guardare di traverso o in video, viene colto come un momento indefettibile della vita di ognuno, ma, al contempo, come l'inizio di una possibile china della perdita di Sé e dei propri valori identificativi, con effetti che non tarderanno a dimostrare i propri risvolti catastrofici, su ogni piano della vita.

Conosci te stesso, ammoniva Socrate, e, come cantano i Four Tops, "it's the same old song", da millenni; il fatto è che non abbiamo ancora imparato abbastanza e che non sarà certo questo piccolo, simpatico ed intelligente film a dimostrare il contrario.

Del resto, la saggezza è millenaria, mentre la vita è breve; per alcuni, come Edmondo Berselli a cui andavano i miei pensieri serali viaggiando verso una Modena sbattuta dalla pioggia come il volto del lutto, un po' troppo.


Indefettibilmente Vostro,

Il_Paolo

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