Tutto sommato mi pare di poter dire di essere una persona perbene.

Oddìo, mi rendo conto che sia piuttosto inelegante dirlo di se stessi e so altresì che, talvolta, ho alimentato anch’io il grande oceano di iniquità e di sgradevolezza che penosamente circonda il Globo. Però insomma: onoro come posso il padre e la madre, non ho mai propugnato stermini di massa, non ambisco a turlupinare il mio prossimo e non ho mai adorato vitelli d’oro.

Come ogni persona ammodo che si rispetti dunque, porto con me il mio carico di follie, manie e idiosincrasie.

Tra quelle che ricorrono più frequentemente vi è la ricerca della fluidità (o meglio, ciò che io penso che sia la fluidità): quando la cappa di obblighi, scadenze e pressioni preme troppo sul mio groppone, cerco al più presto di ritagliarmi del tempo dove posso vagabondare e navigare a vista: sensibile solo e soltanto agli stimoli immediati che la giornata mi può offrire.

Alle volte mi va bene (ricordo quando pedinai un bellissimo gatto rossiccio che mi portò dritto dritto ad un locale appena aperto dove spillavano una magnifica birra belga doppio malto), altre male (sentii alla radio che si preannunciava una giornata particolarmente favorevole agli ascendenti Sagittario e, rientrando completamente in codesta categoria astrale, presi la funesta decisione di parcheggiare per tutta la giornata in pieno centro senza pagare il tagliando: ricordo pure che mi incazzai parecchio della multa recapitatami!).

Ci fu un giorno che, dopo essermi posto nella giusta disposizione di spirito, i segnali che mi arrivarono furono sostanzialmente riassumibili in due parole: “Non so”. La mia ragazza non sapeva dove diavolo aveva cacciato le chiavi della macchina, il mio capo ignorava la mole di lavoro dell’indomani ed io stesso ero completamente all’oscuro su come si aggiustasse il cestello della lavatrice.

C’è gente che ha sul capo minacciose spade pronte a cadere, io quel giorno uscii con un grande ZERO sopra di me: andai in libreria.

Non avevo voglia di niente, non sapevo neanche perché ero rotolato proprio lì. Mentre stavo per andarmene, il mio sguardo si soffermò sulla lettera “enne” dello scaffale e lì lo trovai: “Storie di Amsterdam”. Autore, di cui non avevo mai sentito parlare, Nescio (dal latino: “Io non so”), pseudonimo di tal Jan Hendrik Frederik Grönloh, scrittore olandese la cui produzione si concentrò soprattutto nei primi decenni del Novecento.

Insomma, vi rendete conto!? Fu una rivelazione! E poi: “La vita, grazie a Dio, non mi ha insegnato quasi niente”. Dopo aver letto nella quarta di copertina questa citazione dell’autore ogni dubbio fu fugato: comprai il libro.

Storie di Amsterdam” è composto da tre lunghi racconti e sei brevi (alcune brevissime) novelle. Si tratta di storie (quasi) tutte intrecciate fra di loro (con i personaggi che “migrano” da un episodio all’altro) che vengono animate dall’ “educazione sentimentale” di ragazzi poco più che ventenni che, nel vivido scenario della Amsterdam dei primi del Novecento, scorrazzano impavidi alla ricerca di risposte.

Chiarisco subito una cosa, Nescio potrà anche non sapere molte cose, ma una cosa la sa decisamente fare: scrivere.

L’argomento cardine delle sue pagine (l’eterna smania di rivolta verso l’ottusità borghese che ha acceso, accende tutt’ora e sempre accenderà le coscienze dei giovani uomini appena “entrati” nella vita) è un tema molto difficile: oltre a prestare il fianco ad un pericoloso eccesso di retorica, si rischia anche lo schiacciante paragone con i più grandi maestri letterari che, nei secoli, hanno sfruttato a man bassa questo filone aurifero.

Non a caso ho parlato di “Educazione Sentimentale”: lo scenario dei primi due (splendidi) racconti del libro, quel gruppo di ragazzi che vuole conquistare il mondo e che sente Dio dalla sua parte, non può non ricordare il capolavoro di Flaubert.

Bisogna dire che però Nescio ne esce alla grande: ciò che in Flaubert si faceva immane, immortale, pantagruelico (e, a tratti, un tantino troppo massiccio), in Nescio si fa leggero, ironico, “micro-tonale” nei dialoghi quanto variegatissimo nei colori (con le vedute inondate di luce della città olandese rese splendidamente).

Le storie sono pervase da una musica leggera ma profonda con picchi di poesia che raggiungono lo zenit quando i ragazzi si trovano da soli in spiaggia al tramonto o vicino a canali sperduti tra mucche, rane e campi di grano. Quando insomma il mondo borghese è lontano e inoffensivo.

Questo odio congenito dell’autore verso la borghesia (da notare che Grönloh lavorò tutta la vita per aziende commerciali e che solo molto in là con gli anni rivelò di essere lui Nescio) richiama alla memoria un altro grande maestro: Guy de Maupassant.

Ciò che li accomuna è il tocco leggero ma mordace allo stesso tempo, un grandissimo disprezzo celato dietro uno stile minimale e secco. Ma, se in Maupassant il colore dominante era il nero senza alcuna possibilità di redenzione o di salvezza, in Nescio, grazie forse ad una incostante quanto pervasiva ironia, è rinvenibile comunque una flebile luce in fondo al tunnel. Vaga, debole, intermittente, ma comunque tangibile e presente.

A dire il vero però, non tutti i racconti si assestano al livello dei primi due (“Lo Scroccone” e “Giovani Titani”): ci sono negli altri alcuni momenti ridondanti e di stanca, ma quelli che ho citato, secondo me, valgono la raccolta e sono tra i più bei racconti di formazione che io abbia mai letto.

Ancora due parole sul discorso di inizio recensione: sono certo che sarete felici di sapere che persino il mio nome (qui sul DeB) lo devo in qualche modo alla mia ricerca di fluidità.

Ero in vacanza e, mezzo sbronzo, mi sono messo in spiaggia ad ascoltare “Galactic Supermarket” dei Cosmic Jokers: “puntavo” Debaser già da qualche tempo e lì, seduta stante, decisi che mi sarei chiamato in quel modo.

Anzi non proprio: le spire dell’ alcool mi suggerirono che sarebbe stata un’idea parecchio arguta e divertente aggiungere una “c” nell’ avatar, in modo da dare un indizio sul mio vero nome (che inizia appunto con la “c”).

Solo a sobrietà recuperata mi resi conto dell’idiozia della cosa. Mi ero appena iscritto e avrei potuto benissimo aggiustare il nome creando un altro account, ma alla fine decisi di lasciare le cose come stavano.

Avrò fatto bene? Avrò fatto male?

Non so”.

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