Chi ? Ah, già. Quello con il ciuffo, il pupillo di Madonna. E giù con gli anni '80, la musica di merda, le ragazzine, veh che era figo però, ma per il resto, Dio ce ne scampi. Calma. Atto di fede. Che poi mica siete obbligati a concederlo: ma io ve lo chiedo uguale.

Questa recensione nasce in contrapposizione a codeste vesti che si stracciano https://www.debaser.it/nick-kamen/move-until-we-fly/recensione , che hanno ragion d'essere perché diversamente io starei qui a scrivere ad minchiam.

No, nel 1990 non eravamo più negli anni '80. No, il ciuffo il terzogenito dei Kamen (Nick ha due fratelli maggiorni: Chester, apprezzato chitarrista turnista e Barry, pittore astratto che di questo album ha elaborato la cover, scomparso prematuramente due anni fa) non ce l'aveva più. Zac! Rimosso.

Chi vi scrive, a cavallo tra il 1986 ed il 1990 faceva un pò da pesce pulitore, con il pop. Acquisiva, rielaborava, restituiva. In quanto non interessato all'aspetto esteriore, riversava passione e frenesia sull'aspetto musicale. Non ridete, vi vedo.

"Move Until We Fly" non sembra un prodotto confezionato per vendere. E' malinconico, piuttosto introspettivo, sembra rinnegare il recente passato dell'artista che, seduto, in disparte in un angolo, ci racconta i tormenti di un ventottenne che non balla più ammiccando le telecamere, ma guarda per terra e sussurra, il più delle volte borbotta.

Lo stesso singolo apripista, "I Promised Myself", tramandato ai posteri perché orecchiabile e radiofonico, cela un velo di rassegnazione, di presunta incompiuta. "How many of us out there, feel the pain, of losing what was once there ?". "Oh How Happy", arricchito con un gospel, prima cover dell'album, viene adombrato da un arrangiamento scarno ma sembra sempre trattarsi di una felicità passata, di un'eco. L'altra cover, riarrangiata magistralmente da Andy Richards, "Looking Good Diving", è un brano altruistico, la cui unica pretesa è quella di insinuare il ritornello nelle corde dell'ascoltatore, fino a convincerlo. E ancora, in "Take Back My Hand Child", : "I'm trying hard, to overcome, the fears I feel inside. I can't deny those lonely nights, the tears I hold inside...". Musicalmente vacuo, oscuro (lo si percepisce dalla intro con tanto di tromba che ritroveremo nell'ottimo refine prima dell'ultima tornata di ritornello), si sente che il ragazzo è sconsolato, perso, e non si fa problemi ad invocare aiuto.

Proseguiamo, se ancora non mi avete skippato. "We Can Make It", "Agony And Ecstasy" e "You Are", se suonate in successione, rappresentano il punto più elevato dell'album. Quale miglior dichiarazione d'amore eterno di : "Late at night, I check the news on the tv, I pray for the future. Why can't we make our dreams reality ? Sit right here, and talk to me, I think I know how your feeling. I'd listen to you anytime of day...". O quale alert più crudo di "Don't say that you love me cause you won't see me anymore" a chi vorrebbe solo spupazzarselo ? "You Are", la preferita di chi vi scrive, scarna nei testi quanto elaborata e triste nel sottofondo musicale, non è il grido di dolore di chi è schiacciato da una realtà che lo tronca con violenza dalla persona amata, probabilmente malata o in procinto di morire ?

Che poi, la lunghissima title track che chiude l'album in un lento epilogo, sussurri nel refine : "Heaven knows...she's on my side... I've waited so long, I can fly.... I'll watch over you forever....", non vi fa pensare che forse no, questo non vuole più le copertine, ma stersene solo seduto ad un tavolo a fare quattro chiacchiere nella speranza che anche voi siate ossessionati dalle stesse paure ? Il tutto ha un senso se permeato con la musica, chiaro.

Di poco conto "Somebody's Arms To Hold Me" e "I Want More", gradevole la terza cover "Um, Um, Um, Um, Um, Um" ("I just can't help myself, I was born with a curious mind....").

La credibiltià dell'artista Nick Kamen è stata messa sul tavolo verde, giocata e persa, con l'omonimo album di debutto (1987), infarcito di classici sotto forma di cover, e probabilmente dal secondo disco "Us" (1988), laddove l'immagine finiva inevitabilmente per soffocare i contenuti. "Move Until We Fly" è un lavoro maturo, un silenzioso quanto fugace salto in alto. Il salto è stato fatto bene, con cura, con onestà e a carte scoperte, questa volta. Peccato non ci fosse il materasso, giù, ad aspettarlo, il Nick. E, in caduta, il ragazzo dei Levi's, il ragazzo dal ciuffo che il ciuffo non aveva più, si è sfracellato. Il successivo album, "Whatever, Whenever" (1992) venne realizzato con il defibrillatore. E, non essendo né carne né pesce, venne schiacciato, gettato via come una lattina vuota. Dimenticato, e ne valeva la pena. "Move Until We Fly", invece, merita di vivere.

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