Se la storia di Bronson fosse stata trasposta al cinema in stile hollywoodiano ne sarebbe venuta fuori una mezza schifezza commerciale, un banale blockbuster da dimenticare nel giro di qualche mese. L'industria cinematografica è riuscita a raccontare in modo asettico persino la vita di uomini del calibro di Oyama (Fighter of the wind), dunque figuriamoci come si poteva realizzare un film standardizzato e canonico su un soggetto così particolare ed anomalo come quello di Michael Gordon Peterson, in arte Charles Bronson. Per rendere giustizia a questo personaggio ci voleva un regista visionario, uno come Nicolas Winding Refn in grado di uscire coraggiosamente dagli schemi convenzionali.
Bronson è passato alla storia come il detenuto più violento d'Inghilterra, un uomo ossessionato dal desiderio di diventare famoso. Il volersi fare un nome lo porterà a rapinare in modo fallimentare un ufficio postale e per questo verrà condannato a 7 anni di carcere ma finirà per scontarne più di 35 per via delle sue lotte furiose contro i secondini. Tutt'oggi è in prigione e non si sa per quanto ancora dovrà restarci.
Il film è stato definito "L'Arancia meccanica del ventunesimo secolo", ma è un mero slogan commerciale in quanto a parte la violenza, anch'essa di natura differente a quella dell'opera di Kubrick, la prospettiva, l'atmosfera, lo stile, le inquadrature, e tutto il resto con Arancia Meccanica non hanno nulla da spartire.
In Bronson la violenza, sia fisica che psicologica, è incorniciata da un nichilismo devastante che regna sovrano dalla prima all'ultima scena. Refn ha lasciato spazio ad un ambiguità di fondo non fornendo alcuna motivazione esplicita alle imprese del personaggio come se ci fosse qualcosa di imperscrutabile allo stesso Charles Bronson, elemento che risulta più marcato nella seconda parte del film dove è evidente che in fondo neanche lui sapeva cosa voleva ottenere con le sue prese di ostaggi che si riveleranno degli atti autolesionistici. Il regista ha pensato sapientemente di non razionalizzare un soggetto di per se assurdo e in più di farne qualcosa di surreale che sfocia a tratti nell'onirico, fattore esaltato dalle tinte dark di cui sono permeati gli ambienti al chiuso. Memorabili le scene dei monologhi teatrali in cui il protagonista compare nei panni di un clown grottesco che ironizza sulla sua stessa sorte di fronte a un pubblico invisibile il quale applaude le sue gesta. Nell'ultima scena vediamo i secondini chiudere il portone del carcere come se così facendo stessero calando il sipario.
Tom Hardy nella parte di Bronson è stato bravissimo, un ruolo per cui si è preparato parecchio sia fisicamente (ingrassando e aumentando la massa muscolare), sia psicologicamente (incontrando il vero Michael Peterson in prigione).
In Italia la localizzazione è stata alquanto tardiva ma perlomeno la versione nostrana non presenta tagli e il doppiaggio è buono sebbene la voce di Hardy sia insostituibile e certe scene risaltano maggiormente in lingua madre (come ad esempio quella di Bronson che serve il tè alla guardia).
Concludendo Bronson è davvero un ottimo film dalla regia lodevolmente creativa la quale non si concentra su un eccessiva dose di primi piani ma riesce sempre a mettere bene in risalto l'ambientazione e i personaggi secondari. Menzione d'onore va fatta anche per la colonna sonora.
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