Profeta del caos della carne, dell'apocalisse dei sensi, dell'ottundimento della ragione. Reznor è un genio per molti, un cialtrone per pochi (ma convinti). Tematicamente fu assai distante dagli artisti e gruppi industrial della decade a lui precedente (anni '80), e di notevole rottura con i clangori industrial. Musicalmente, invece, si rifece senza troppo sperimentare all'Electronic Body Music (EBM) e all'Industrial Dance Music (IDM), con qualche sporadico accesso metal. È numericamente impossibile tenere il conto delle copie vendute con marchio NIN, e ciò altro non fa che amplificarne la controversia; un artista che sulla civiltà post-industriale avrebbe realmente qualcosa da dire, e che decide di rivolgere il suo messaggio anti-messianico all'intero ecumene dei suoi fan/fedeli - non a pochi estimatori eletti - adoperando come vettore la sicurezza del già collaudato.

L'IDM aggiornato al Web 3.0 che presenta l'ultimo album in questione, "Hesitation Marks", difficilmente potrebbe proporre qualche sentenza in più all'ormai decretata e conclamata fine della civiltà industriale del '900, coi suoi anti-valori e (indirette) storture. Cosa c'entrerebbe il mondial-popolare Trent Reznor con i gruppi underground inglesi e tedeschi che anni prima traevano dall'estetica dell'apocalisse un malato autocompiacimento, che quasi sempre sottintendeva un'ossianica ossessione per la fine, spesso di matrice "voyeuristica"? Poco o nulla, almeno sul piano dell'apporto innovativo, ma abbastanza a livello concettuale. Abbastanza da potersi ergere a figura iconica della "seconda generazione X" degli anni '90.

All'epoca di "The Downward Spiral" [1994], nell'anno in cui gli Oasis confessavano le loro aspirazioni da starlet in "Rock 'n' Roll Star", Trent e compagni si struggevano in spirali di solipsismi nichilisti ("Heresy") e torbide fantasie sessuali ("Closer"). Un nichilismo pervicace che con gli anni avrebbe irrimediabilmente portato a degli "hesitation marks", "marchi da esitazione", i segni di tentati suicidi; segni indelebili di un passato sempre presente fatto di talento, tormento e contraddizioni. Il breve intro "The Eater of Dreams", l'unica traccia sperimentale dell'album, è un'invocazione ad una sorta di cerimoniale con echi sintetici à la SPK. Il resto si pone su strade battute negli '80 e asfaltate nei '90, anche (e soprattutto) per merito dei nostri. "Copy of A" e "Come Back Haunted" sono validi esempi di IDM in salsa alternative, "Find My Way" e "While I'm Still Here" strizzano l'occhio al dubstep, "Satellite" e "Running" al breakbeat; i brani restanti sono semplici variazioni sul tema. "I Would For You" e "In Two", infine, sono tra i momenti dei nuovi Nine Inch Nails che meglio ne rappresentano la nuova cifra stilistica, già però largamente "calcolata" nei loro ultimi album ("Year Zero" [2007], "The Slip" [2008] e le divagazioni dark ambient di "Ghosts I-IV" [2008]).

Una sintesi di nuovo e vecchio in una nuova forma di danza delle macchine, meno "robotica" e più "umana", più "commerciale" - meno "industriale". Più "capitalista". E (molto) meno "sofferta".

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