Il senso dell’esistenza del DEBASER credo sia, oltre al confronto tra consumatori/malati di musica ed alla nascita di dialoghi impossibili, quello di racchiudere quante più recensioni possibili in modo da avere uno scibile musicale, uno scrigno, un deposito, una stanza da dove attingere consigli, informazioni, conoscenza di nuovi artisti o nuovi album di cui ignoravi totalmente l’esistenza o notizie nuove su un lavoro che hai ascoltato magari superficialmente. Quindi, a parte qualche caso che meriterebbe di essere rivisitato, converrebbe scrivere di album mai recensiti o recensiti proprio poco.

I miei preferiti, a parte qualche rara eccezione, sono stati ampiamente e saggiamente recensiti da debaseriani preparatissimi ma oggi, spolverando il mobiletto dei cd, è venuto fuori l’album “Quando ci sarai” dei Nomadi, penso non recensito (chi lo farebbe?) e così l’ho riascoltato. Sono stato (o lo sono ancora?) affetto da nomadismo ed ho assistito a 57 dei loro concerti: è stato bellissimo ritrovarsi con compagni d’avventura che vedevi una volta l’anno a Novellara o in posti in culo al mondo davanti ad una bella birra ghiacciata a discutere di musica. Ma è stato raro, almeno per me, incontrare persone obbiettive e disposte a mettere in discussione alcuni lavori del gruppo. Questa cosa non mi è mai piaciuta tant’è che per un periodo ho pensato che i fans fossero tutti un poco fanatici. Ogni canzone è considerata dagli afacionados bella. Non dico capolavoro, ma bella. Così non è.

“Quando ci sarai” è del 1996, terzo lavoro del dopo Augusto, e contiene 10 canzoni, 3 eseguite dai Nomadi e 7 non so da chi. Un disco anonimo tant’è che se giri in rete non trovi recensioni ma solo l’elenco delle canzoni che lo compongono. Un lavoro che probabilmente riesce a tenere in parte il passo del periodo di Augusto solamente con le parole delle canzoni a cominciare da “Mamma musica” un testo originale sul suono, sulla musica, perché quando si nasce il primo suono è un pianto (“che faccia grande che ha la musica, che fianchi larghi, che occhi enormi, che gambe lunghe che ha la musica”). Le musiche del disco invece mi hanno lasciato l’amaro in bocca perché se è anche vero che uno dei punti di forza del gruppo è proprio quello della semplicità e dell’immediatezza degli accordi, in questo disco sono stati musicalmente un poco banali. Eppure hanno potuto contare sull’apporto di Francesco Gualerzi che, steso un velo pietoso sulla sua voce e sul modo di cantare, è un polistrumentista notevole e pregevole sassofonista. Ed è lui a rendere meno “piatte” le musiche con i suoi interventi oltre a giovani strumentisti cubani della scuola verosimilmente dell’Havana, ospiti nel disco.

Dopo il brano omonimo sulle riflessioni per un bambino che viene al mondo, “L’eredità” probabilmente scritta per Ago (“nelle canzoni riecheggia l’immagine di chi non c’è”), “Un’altra città” (dove finalmente si riesce a sentire una zampata di chitarra di Cico Falzone) e “Il mattino dopo” (banalissima canzone d’amore con troppe tastiere) si arriva finalmente ad ascoltare il primo pezzo dei Nomadi: “Né gioia né dolore”, brano sull’indifferenza e sull’incapacità di lasciarsi andare alle emozioni (“non sarà un carnevale, non sarà un funerale, non potremo volare, non sapremo star male”). La canzone è impreziosita dalle percussioni dei giovani cubani ma, purtroppo, è cantata da Gualerzi. Comunque è una canzone nomade. A seguire la sufficiente “Johnny” cantata da un Danilo Sacco in erba e dove si percepisce appena la sezione ritmica del complesso e “Nei miei sogni” una canzone così imbarazzante che nel libretto manca il testo (giuro), si arriva alle altre due canzoni eseguite dal gruppo emiliano. Si comincia con “Canzone per i desaparecidos” dove le tastiere di Carletti e gli archi dei giovani musicisti cubani ben si sposano con le parole di denuncia per quegli scomparsi senza giustizia (“non han tombe e neanche croci, non han volto quelle voci, sono un nome in quel foglio”) e si finisce con “La coerenza”, batteria “spazzolata” e fisarmonica scritta per le persone semplici e gli umili dove si sente lo zampino, tra gli autori, di un certo Goran Kuzminac.

Quello che invece non ho mai compreso è il perché Carletti si è ostinato a sostituire Augusto Daolio con due cantanti. Se si decide di andare avanti in un gruppo, e si vuole sostituire un cantante perché deceduto, non si dimostra affatto coraggio inserendone due. Che vuol dire non avere nessuno. Certo l’eredità è stata pesantissima e questo non ha giovato ai Nomadi perché in un complesso che si rispetti uno, e uno solo, deve essere il frontman. Per questo ritengo non felice l’idea di inserire in un album 4 o 5 canzoni cantate insieme da Sacco e Gualerzi. D’altra parte questa “usanza” era già cominciata ne “La settima onda” e “Lungo le vie del vento” album di poco migliori del presente. I Nomadi del dopo Augusto li ho sentiti impoveriti e, a tratti ripetitivi, anche se in altri lavori l’asticella musicale è stata alzata con l’inserimento di altre chitarre, percussioni e violino (Sergio Reggioli) e di un basso degno di questo nome (Massimo Vecchi, bassista virtuoso e grintoso a cui, purtroppo, Carletti ha affidato canzoni da interpretare). Sempre due cantanti…della serie perseverare è diabolico.

Non me ne vogliano gli affetti da nomadismo ma “Quando ci saremo” è, forse, il disco che contiene più brutture di tutta la loro discografia. A loro, però, dico che alla fine a Novellara quest’anno ci sono stato.

Come sempre, sempre Nomadi. Ma con riserva.

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