Può esistere una commistione fra Rush, Red Hot Chili Peppers, Fugazi, Black Flag? Molti, giustamente, direbbero di no… ma la risposta più corretta sarebbe No – Means – No.

Rubato ad uno slogan femminista in voga negli anni ’70, il nome della band di Vancouver è noto solo ai più stretti appassionati dell’hardcore, risultando nel complesso poco conosciuto al pubblico italiano, anche a causa di una distribuzione poco felice degli album del gruppo, incisi a partire dai primi anni ’80, e meritando una riscoperta anche da parte di DeBaser.

La musica dei Nomeansno è difficilmente classificabile, essendo una sorta di crossover fra furore punk, architetture musicali degne del miglior progressive, grove ritmico rubato al funk più ipnotico, sostenuto da giri di basso in cui si fondono efficacemente tecnicismo ed espressività e che dettano nella maggior parte dei casi la struttura delle canzoni. L’abilità tecnico compositiva dei musicisti coinvolti nel progetto (i fratelli Robert e John Wright rispettivamente alla voce, basso, canto e batteria, Andy Kerr alla voce e chitarra) è, del resto, pacifica, anche se tutta al servizio dell’impatto emotivo della musica prodotta dal trio.

"Wrong" (’89) è uno degli album più accessibili del gruppo – oltre che facilmente reperibile dalle nostre parti – in cui sono ben evidenti i punti di forza ed i limiti stessi della ricetta musicale dei Nomeansno: arrangiamenti scarnificati e ridotti all’osso, in cui basso/chitarre/batteria si intersecano a coprire tutti gli spazi lasciati liberi dalla voce lancinante e violente di Wright, sviluppando una serie di temi musicali dissonanti che spesso si protraggono oltre i 2, 3 minuti canonici dell’hardcore americano anni ’80, anche più raffinato (Hüsker Dü); a tratti, tuttavia, il gruppo rivela cali di ispirazione e le canzoni possono sembrare ripetitive, specie se ascoltate in rapida successione, forse anche a causa della “monacale” semplicità della strumentazione e degli effetti sonori utilizzati, che comprime la creatività del trio.

Senza tediare il lettore con una recensione track by track, superflua anche alla luce di quanto appena osservato, mi limito a segnalare, fra i pezzi migliori, lo splendido duetto d’apertura composto da "It’s Catching Up", dalle ritmiche sghembe e singhiozzanti e dalla granitica "The Tower", in cui spicca un ansiogeno tappeto di batteria fino all’esplosione del violento ritornello, nonché l’essenziale "Tired of Waiting", punk dalle tinte demenziali ed espressioniste. I brani restanti si muovono all’interno delle predette coordinate, a mio avviso senza picchi significativi, ma con ottima media generale.

In conclusione: gli appassionati di musica alternativa anni ’80 e ’90 corrano a comprarlo, se non l’hanno già in discografia… astenersi i palati melodici.

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