Nusrat Fateh Ali Khan era il rampollo di una famiglia di lontane origini afgane che da seicento anni porta avanti una tradizione musicale antichissima, il canto Qawwali. Il Qawwali è strettamente legato al sufismo che a sua volta si lega alla tradizione sciita. I testi dei canti Qawwali sono infatti per lo più delle odi ad Alì, cugino e genero di Maometto, sposo di Fatima e fondatore della dinastia sciita. I sufisti, da persone intelligenti quali sono trovano che la danza, la poesia e ovviamente la musica siano mezzi necessari per illuminarsi e unirsi alla divinità.

Insomma siamo lontani anni luce da qualsiasi integralismo... Nusrat Fateh Ali Khan nacque nel 1948 a Faisalabad, Pakistan. Fù chiamato Pervez, ma a un vecchio venerabile quel nome non piaceva. Un re persiano che secoli prima aveva provocato disgrazie ignorando una lettera del profeta, si chiamava proprio Pervez. Il vecchio disse che per un fanciullo destinato a cantare la gloria di Allah, quel nome non era adatto. Nusrat era molto meglio. Papà Fateh seguì il suo consiglio ma poi destinò il figlio alla carriera medica. Il ragazzo era piuttosto sovrappeso e aveva una voce stridula. Non era adatto a portare avanti la tradizione di famiglia. In quel periodo però Nusrat fece un sogno. In quel sogno, si trovava nel santuario di Hazrat Kawaja Mouin-Ud-Din Chistie ad Ajmer in India; e cantava... Certo quella era una visione assurda dato che a nessuno era mai stato consentito di cantare nel santuario più caro ai fedeli del sufismo. Ciò però diede al giovane Khan la forza per esercitarsi di nascosto e infine di trasgredire l'imposizione paterna.

Nel corso degli anni settanta e ottanta, ereditata la leadership del “party” (ensemble Qawwali) di famiglia, concerto dopo concerto, festival dopo festival, Nusrat conquistò il publico mediorientale e guadagnò il titolo di “Ustad” (maestro). Verso la metà degli anni ottanta avvenne l'incontro con Peter Gabriel. Il party degli Ali Khan partecipò agli spettacoli itineranti di Womad e alla colonna sonora del film “l'ultima tentazione di Cristo”. Del 1989 è il primo disco uscito per la Real World (“Shannen Shah” ). Da allora Il verbo del maestro si è diffuso in tutto l'occidente facendo proseliti anche fra molti musicisti: Jeff Buckley una volta disse che nel suo appartamento aveva poche cose e il frigo vuoto. Ma su uno scaffale teneva seicento dollari investiti in dischi di Nusrat. E con molti musicisti occidentali Nusrat collaborò, per esempio i Massive Attack in “Mustt, Mustt” e Michael Brook in “Night Songs”. Così facendo sfidò i tradizionalisti della madre patria, ma contribuì a evolvere sia la musica rock che il Qawwali.

“Love songs” è del 1991. Contiene sei canti Ghazals, la versione profana del Qawwali. I testi sono composti da dialoghi tra amanti. Ma anche nella sua versione profana il qawwali non cessa di ricercare l'unione con il divino. Ovviamente ci si deve scordare la forma canzone come noi occidentali la intendiamo: prima strofa, seconda strofa, ritornello. Scordatevi anche le innumerevoli varianti. Il Qawwali è un canto che ruota tutto attorno ad un tema che viene suonato dall'harmonium. Ad accompagnare la melodia sono le tablas (percussioni) con il loro incedere tribale. A sostenere il ritmo delle tablas, il battito di mani. Su questa base si librano in volo tre voci che intonano la poesia a turno accompagnati dal coro degli altri otto elementi. La voce di Nusrat non so se è la più bella, certo è la più profonda, la più rauca, sulle prime la più sgraziata, ma anche la più passionale. Ho visto alcune foto di qualche performance. Nusrat appare seduto su tappeti persiani con le gambe incrociate, le mani innalzate a seguire ritmo e melodia, i tratti gentili del volto sconvolti in una smorfia terribile. Uno stato di trance, ecco a cosa ti conduce questa musica ripetitiva, ossessiva ma benigna. Un budda pakistano che almeno per la durata del suo canto ti libera del marcio che hai dentro e ti fa vedere Dio se ci credi, sennò ti dona una sensazione di inebriante vitalità. Ma attenzione, questa è una musica che colpisce poco per volta. È attraverso la ripetizione ossessiva di quei versi incomprensibili che si raggiunge l'estasi.

Ho letto di alcuni concerti che andarono avanti per ore prima che gli artisti si ritenessero soddisfatti. Un po' come i dervisci rotanti che girano su sé stessi per minuti interminabili cercando Dio nel disegno dei loro cerchi perfetti. Ogni tanto, terminata una ripetizione, una delle tre voci si innalza, rauca, violenta, con sali e scendi di tono velocissimi. A volte invece permane sullo stessa nota come per lamentarsi. Ma è un lamento naturale come il pianto di un bambino. La voce di Ustad Khan allora entra in scena, non certo per rimproverare quella voce per l'uscita dal seminato, anzi... Le improvvisazioni sono il sale e il pepe di questi piatti speziati. Anche il suonatore di harmonium segue le melodie ad orecchio e quando esse terminano, un rombo di tablas annuncia una nuova impetuosa ripetizione del tema iniziale. E alla fine, dopo questa ubriacatura da vino degli dei, il ritmo si placa e un ultima ripetizione ci annuncia che siamo in dirittura d'arrivo. Pronti per un nuovo inizio.

Nusrat era malato. Era diabetico, aveva problemi respiratori e non si curava con regolarità. Troppa era la passione per la sua musica. Troppo l'amore per il publico. Molte volte venne ricoverato in ospedale. Regolarmente se ne andava contro il parere dei medici. Doveva rispettare una fitta agenda di impegni e non per il volere di qualche agente. Sentiva la sua professione come una missione. Doveva intonare ogni volta un nuovo canto di fronte a gente adorante. Dopo le performances, uomini e donne di ogni età gli si avvicinavano come ci si avvicina a un santo. Nusrat ricambiava con un sorriso e un affetto che avevano poco di santo e tutto di umano. È morto nel 1997 a Londra. Ma questa non è una storia triste. Una storia che inizia con un sogno deve finire bene. Magari con la realizzazione di quel sogno. Nel 1979 giunto come pellegrino ad Ajmer al santuario di Hazrat Kawaja Mouin-Ud-Din Chistie, Nusrat venne invitato dai monaci a cantare.

Fù il primo e l'unico.

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