Parlo degli Obituary, ma sostanzialmente occupo indebitamente lo spazio pubblico. E lo faccio con una breve premessa: qualche settimana fa ero a vedere i Fire + Ice: non eravamo più di cento. Giovedì scorso sono stato uno dei cinquanta fortunati ad assistere ad un evento raro e speciale, reso possibile grazie all’impegno e la determinazione di un visionario che ha creduto nell’impresa ed un grande artista (e, questo punto, grande persona), captato mentre era in vacanza in Italia, che si è dato (nel senso che HA DATO TUTTO) a pochi fan, semplicemente per passione, amore per il suo “mestiere” e spirito di condivisione, regalandoci/si una serata fantastica.
Venerdì sera, infine, sono andato a vedere i cari e vecchi Obituary. Ovviamente eravamo un po’ di più di cinquanta, ma Tardy e compagni distavano solo qualche metro (tra me e loro: solo pogo sfrenato) dalla mia posizione, dalla quale ho avuto modo di godermi in “tranquillità” ogni singola nota: avevo sete di Obituary e me li sono bevuti fino all’ultima goccia, grazie non solo alla vicinanza fisica, ma anche ai suoni perfetti ed alla comodità dell'accogliente location (l’arena-parco del Jungle, che poco meno di un mese fa ha ospitato Gorguts e finti Death). A riprova che dei concerti da stadio mi sono proprio rotto il cazzo: sarò forse io che con il tempo mi sono inciabattato, ma evidentemente è per me divenuto importante più di ogni altra cosa il contatto con l’artista.
Ed è strano pensare che una delle esibizioni che più mi sono piaciute quest’anno sia stata opera di una band per cui non ho mai stravisto: non sono un fan sfegatato degli Obituary, nemmeno ai tempi d’oro, trovandoli il più delle volte prolissi. Eppure, aspettando il loro ingresso sul palco, ero stranamente elettrizzato, curioso, sapevo che i Nostri avrebbero allestito lo show di cui in quel momento avevo fortemente bisogno. Due parole, prima, vanno spese tuttavia per i Tossic, che hanno fatto da spalla: per chi volesse saperne di più su questa storica band pisana, rimando alla mia recensione di un loro concerto di qualche anno fa che potete trovare proprio su queste pagine; le impressioni di questa sera saranno pressoché identiche. Voglio qui aggiungere solamente che “Cazzi di pane” (gran finale) è una signora canzone, con un signor testo, e che vedere Mazza, incanutito e sorridente, aggirarsi sul palco con il sacchetto per il proverbiale lancio dei cazzi di pane sul pubblico, rito che si consuma da oltre vent’anni per chiudere i concerti dei Tossic, mi ha quasi commosso. Bene, bravi.
Ma passiamo agli Obituary. Li introduco con una nota tecnica: del nucleo storico sopravvivono i pezzi fondamentali, ossia i fratelli Tardy e Trevor Peres. E’ però un piacere trovare al loro fianco un bassista di peso (in tutti i sensi) come Terry Butler, che militava nei Death ai tempi di “Leprosy” (mica cazzi) e che ha proseguito il suo cammino con i Massacre: insomma, un altro pezzo di storia del death metal. Non conosco invece l’altro chitarrista (che non è Ralph Santolla, in forza nella band da qualche anno a questa parte), ma so che fa molto bene il suo lavoro, non facendo rimpiangere nemmeno il mitico James Murphy che illuminò con i suoi pregevoli assoli l’arte brutale della band americana in occasione del capolavoro “Cause of Death”.
Gli Obituary sono molto efficaci dal vivo, forse perché ci parlano con un vocabolario semplice: sospesi fra Celtic Frost e Slayer, alternano con equilibrio passaggi lenti e possenti a stacchi assassini. Ma il bello è che lo fanno al di fuori di un qualsiasi senso di struttura: in una canzone degli Obituary può passare tranquillamente qualche minuto prima che spunti fuori la voce, magari le chitarre macinano riff per porzioni abbondanti della singola traccia, per poi chiudersi improvvisamente dopo tre o quattro strofe sbavate (nel vero senso della parola) da John Tardy. Oppure possono seguire code interminabili in cui non si fa altro che citare “Hell Awaits” o “Jesus Saves”. Se tutto queste vi sembra prevedibile, vi dico che vi state sbagliando. Certo, non ci aspetteremo mai da una canzone degli Obituary un intermezzo di samba, ma vi assicuro che stasera tutto questo susseguirsi di “osservazioni” in continuo e perenne mutamento ha del sublime. Ascoltare una canzone degli Obituary vuol dire che molto raramente ti troverai innanzi ad un banale schema strofa/ritornello; ascoltare una canzone degli Obituary significa che sarai schiacciato dalla violenza, soffocato dalla pesantezza dei riff, ma anche stuzzicato dalle svariate soluzioni che i nostri amano condensare nello spazio canonico dei tre/quattro/cinque minuti che può durare un loro brano. Assistere ad un loro concerto, anche da parte del fan più attento, significa riconoscere porzioni di brani più che i brani in sé, che inevitabilmente finiscono per assomigliarsi: significa non tifare per un brano piuttosto che un altro, anche perché non vi è una grande differenza fra il brano più brutto e quello più bello degli Obituary. Cosicché l’ora e mezza di concerto scorre come se fosse un’unica estesa suite. Per me l’evento assume contorni addirittura mistici: un mantra in cui qua e là si ergono degli acuti clamorosi, dettati dalle reminiscenze incrostate nella parte più oscura dei ricordi (ridendo e scherzando, gli Obituary li ascoltavo venti anni fa). Potremmo dire che se gli Slayer sono una macchina fatta per secernere violenza, per farti male, gli Obituary (che certo non ti fanno le carezze) sono dal vivo una macchina per farti godere.
Se è quindi nell’insieme che ho apprezzato l’evento, non si può dire che stasera siano mancati i classici. A parte l'inspiegabile assenza di “Don’t Care”, il loro hittone per eccellenza (mi ricordo che all’epoca circolava su MTV un video di questo brano), i nostri si concentrano principalmente sui primi tre album. E se a “Slowly We Rot” è conferito l’onore di aprire e chiudere le danze (rispettivamente con “Stinkupuss”, opener ideale con la sua prima parte cadenzata, presto spazzata via da un’accelerazione/assolo al cardiopalma – come dire: “Eccoci, siamo gli Obituary” – e la title-track, devastante quanto degno commiato alla serata), lo spazio maggiore è concesso ai due capolavori “Cause of Death” e “The End Complete”, dai quali vengono estratti nel complesso una decina di pezzi, che è praticamente più della metà delle risorse messe in campo. Da lacrimuccia gli episodi di “Cause of Death” (in particolare “Infected”, con la sua maestosa introduzione doom infarcita di assoli da brividi, e “Chopped in Half”, forte della sua doppia-cassa trita-tutto, ma anche “Body Bag” e “Turned inside Out” non scherzano), mentre, per quanto riguarda “The End Complete”, è semplicemente micidiale la sequenza assassina con cui sono riproposte di fila “Back to One” (altro insospettabile classico), “Killing Time”, la title-track e “Dead Silence” (nei bis verrà anche riproposta l'immancabile “I’m in Pain”). Della produzione recente non so dirvi molto, considerato che ho abbandonato la band nel 1994 (ai tempi di “World Demise”, del quale fra l’altro non mi pare abbiamo riproposto niente), ma di certo anche questi brani post-reunion (compresa la presentazione di un inedito che presenzierà nell’album di imminente uscita) hanno un tiro discreto, non sfigurando affatto accanto ai pezzi più datati.
Prova impeccabile da parte di tutti e cinque i musicanti, in particolare impressiona la prestazione di Donald Tardy dietro alle pelli: preciso come un metronomo, fortissimo nei blast-beat quanto chirurgico nei cambi di tempo, è il vero trascinatore di queste sessioni dell’abisso. A parte qualche incertezza iniziale, anche il fratello John (non capisco quale sia il difetto fisico che non lo rende imponente – forse la testa piccola rispetto al corpo ed in particolare all’enorme cesto di capelli, forse un po’ di pancetta) si comporta bene dietro al microfono, rovesciando sul pubblico quelle grida bestiali che hanno fatto la fortuna del gruppo. Ma è il modo di comportarsi dei musicisti che rende surreale l’esibizione: John Tardy ogni tanto si eclissa dal piccolo palco per mettersi accanto alla batteria, spesso imitando le movenze percussive del fratellonzo; tutti quanti poi, fra un pezzo e l’altro, si riuniscono misteriosamente intorno al drum-kit a parlottare sottovoce, lasciando il pubblico orfano di un intrattenitore.
Questi comportamenti inconsueti, insieme a tutto il resto precedentemente descritto, hanno reso atipica questa grande serata di musica estrema. Che quelli del death metal vecchia scuola fossero dei professionisti si sapeva (difficilmente questi ottimi musicisti votati alla brutalità deludono dal vivo); quello che invece ci hanno insegnato stasera gli Obituary è che il death metal non è solo bastonare senza pietà, ma è anche inventiva, irrazionalità, inseguimento e sviluppo di idee e visioni.
Onore e gloria alla vecchia scuola.
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