"manca l'analisi e poi non c'ho l'elmetto"

Rock n' roll come rito dionisiaco, come proiezione dell'irrazionale, come esperienza orgiastica.
Rock n' roll come malattia invasiva e virulenta, come un'infezione tanto intensa quanto breve.
Un'esibizione di metà luglio, su una spiaggia, per un gruppo che vanta un disco dal vivo dal titolo programmatico di "17 Cumshots".
Un "power trio", tre loschi americani del profondo sud, affratellati tanto da adottare lo stesso cognome, intrisi dei vapori venefici che si sollevano dalle paludi malariche da cui provengono, e con il chiodo fisso del sesso e del caos.
Sotto il palco una bolgia liberata dai rampini della quotidianità, sulla spiaggia fiorenti ninfette in shorts e piedi nudi sono rincorse da giovani fauni e, più lontano, gruppi e soggetti sparsi, dagli stati di coscienza in caduta libera.

La realtà, molto più prosaica, passa per la spiaggia 72 di Marina di Ravenna, meglio conosciuta come "Hana Bi" (a poca distanza dalla famigerata e ormai in declino "Duna degli Orsi"), fra i fumi delle grigliate e delle piadine e con un pubblico impegnato a recitare la consueta vetrina, ciascuno secondo la propria nicchia di mercato di riferimento.
E poi tutto uno sfavillare di flash e di occhi dentro le videocamere. In questo modo lo spettatore "c'è ma non c'è". E' lì fisicamente, ma paradossalmente non vede mai dal vero l'esibizione, sempre e solo mediata dal video, la prima volta sul visore della videocamera e poi attraverso l'occhio (ex)catodico. Potenza della modernità.
Una sveltina di brani, per un'oretta o poco più, compresi i canonici bis, richiesti in modo tutt'altro che insistente dal gentile pubblico di cui sopra. Una smandrappata sotto il palco che mimava, con scarso appeal, balli sconvenienti, e qualche accenno di pogo nei pezzi più veloci completavano il quadro.
Ho già scritto in altre occasioni che, per un pubblico che concepisce l'unica realtà possibile come la replica di quello che "dovrebbe essere", la simulazione è l'unico comportamento sincero e l'unico atteggiamento possibile.
Simulato, quindi vero.
Niente imprevisti, niente vita a rovinare gli eventi.

The Oblivians, dicevamo.
Una specie di carbonara del rock n' roll: Una ricetta nota e stranota ma che se eseguita con perizia non delude mai; i nomi di riferimento sarebbero decine, e tutti di qualità. Giusto per dare l'imbeccata: Screaming Jay Hawkins, Ramones, Gun Club... trattati però con una furia che trascinava gli Oblivians verso i gironi infernali del rock che non ha nulla da perdere.
 Ad essere rigorosi tuttavia, i punti di contatto fra blues e punk non sono poi così numerosi e scontati come può sembrare in apparenza, ed è per questo che gli ibridi costruiti su quest'alchimia non sempre funzionano a dovere. Ma quando funzionano, quando si realizzano queste "convergenze parallele", allora il risultato puzza di zolfo e di birra rancida. E gli Oblivians sono stati più o meno questo. 

Ma il tempo passa, le mamme imbiancano, e, come nei giocattoli di latta, la molla della carica si snerva e perde vigore.

Le aspettative andavano quindi ridimensionate, e infatti i tre figuri non hanno certo proposto le bombe incendiarie che ascoltavamo nelle "Sympathy Sessions", ma un concerto onesto, a tratti anche vigoroso e carico benché dal suono forse un po' troppo pulito (sempre se paragonato alla carta vetrata degli esordi). Una performance da autentici mestieranti, che sanno bene cosa bisogna fare sul palco, ma non per questo da svilire a priori.
Non dimentichiamo, infine, che in questi casi a remare contro ci si mettono anche i lacci e lacciuoli imposti da ordinanze e divieti vari, che oltre a provocare stati psicotici e la sindrome da etilometro, prescrivono limiti sonori da Zecchino d'Oro e il coprifuoco totale a mezzanotte in punto.

Sarà per questo che la vetturetta su cui viaggiavamo si stava trasformando in zucca - e noi in somari?

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