Dal mettere spaventosamente d’accordo tutti al dividere profondamente. È il passaggio che hanno fatto gli Opeth quando hanno deciso di abbandonare il loro peculiare prog death metal per tuffarsi nel prog-rock oscuro di ispirazione settantiana. Beh, a dire il vero questo passaggio l’hanno fatto in tanti ma il loro caso è probabilmente uno dei più lampanti. A partire da “Heritage” gli Opeth hanno dovuto fare i conti con numerose critiche che fanno perlopiù riferimento ad una presunta mancanza di personalità nel fare prog-rock, ad un sound troppo dipendente da Camel e King Crimson ma che suona poco Opeth. Tuttavia “In Cauda Venenum”, tredicesimo album della band svedese (che per l’occasione sceglie di pubblicare l’album anche in lingua madre), ha fatto ricredere in molti.
Agli Opeth è bastato aggiustare pochi elementi per realizzare l’album giusto, non è stato necessario uno stravolgimento vero e proprio, con pochi accorgimenti si è arrivati a centrare il bersaglio. A partire già dalle sole chitarre, che suonano finalmente graffianti e brillanti senza tradursi in un vero e proprio hard prog (cosa che succedeva maggiormente nel precedente album), un approccio che potrebbe ricordare quello dei King Crimson del periodo ‘73-’74; spiccano anche assoli intensi e ricchi di pathos come non si sentivano da tempo. A rendere il sound molto robusto ci pensa anche Martin Mendez, bassista che ho sempre trovato piuttosto anonimo e in ombra ma non qui, dove i suoi passaggi gravi e rocciosi sembrano avere un peso particolare sull’atmosfera tesa delle composizioni. Variegato anche il drumming di Martin Axenrot. Ǻkerfeldt poi ci dà dentro con la voce, senza assolutamente rispolverare il growl (di cui la band non esclude un ritorno in futuro) ma tirando fuori una grinta che forse mancava nei dischi precedenti. Allo stesso tempo però viene dato uno spazio di rilievo alle parti acustiche, anch’esse molto decise e metalliche, con fraseggi mai scontati e sempre piuttosto limpidi, quelle parti che sembravano aver perso potere nelle recenti produzioni qui riacquistano forza, anzi acquisiscono un valore melodico mai visto prima; ricordiamo che per gli Opeth i momenti acustici sono stati un’arma vincente negli anni d’oro, quelle sezioni che spesso attingevano dal folk avevano un peso enorme nel determinare il vecchio stile Opeth, queste insieme all’elemento tecnico erano proprio la cosa che ha suscitato la curiosità di molti cultori, erano quel qualcosa che ha permesso agli Opeth di distinguersi dalla miriade di band, di non passare per la solita metal band. In sostanza sembra essersi ristabilita quell’alternanza di momenti duri e momenti soft che aveva reso celebri gli Opeth durante gli anni death, come se la formula tornasse in auge ma con una diversa applicazione, venendo impiegata nel contesto prog-rock in cui la band è da anni coinvolta. A completare il quadro sonoro ci pensano poi dei vigorosi arrangiamenti orchestrali, forse il vero elemento rivoluzionario dell’album, tanto spessi e imponenti da mettere in secondo piano il lavoro sempre piuttosto old school del tastierista Joakim Svalberg; questo provoca un piacevole distacco da certe sonorità troppo settantiane per avere finalmente un sound che brilla davvero di luce propria, al massimo un pochino imparentato con certe produzioni di Steven Wilson. È abbastanza risaputo che nel prog l’eccessivo revivalismo settantiano alla lunga non è ben visto, specie considerando il fatto che si tratta di un genere che per sua definizione si impegna ad andare avanti; difficile stabilire in che misura qui si è andati avanti, ma di certo il sound è più convincente ed evoluto rispetto ai dischi precedenti.
Quasi ogni brano sembra avere il potere di colpire nel segno a suo modo. “Heart in Hand” si fa notare con le sue cavalcate rocciose e selvagge, i suoi stranissimi effetti di sintetizzatore centrali e la sua lenta coda acustica. “Next of Kin” colpisce per il suo incedere lento ma scandito da riff di chitarra tesi e dilatati, come anche per i suoi arrangiamenti d’archi che si irrobustiscono sempre di più fino al quasi assordante tripudio finale. “Universal Truth” è il trionfo della melodia, in particolare vi è il perfetto connubio fra chitarre acustiche pulite e arrangiamenti d’archi spensierati e leggeri, a creare un’atmosfera quasi solare e primaverile, ma forse il picco melodico si raggiunge nella struggente ballata “Lovelorn Crime”, guidata dal piano e anch’essa sostenuta da brillanti arrangiamenti orchestrali, ricorda da vicino “Drive Home” di Steven Wilson anche per via dell’emozionante assolo finale il cui stile ricorda parecchio quello di Guthrie Govan. Ma gli Opeth sanno sorprendere anche con trovate ben più inusuali, basti pensare all’introduttiva “Garden of Earthly Delights” che sperimenta per la prima volta loop elettronici abbracciando le atmosfere dei Tangerine Dream, oppure al peculiare e maldestro “horror-jazz” orchestrale guidato da un pesante pianoforte di “The Garroter”, ma anche al basso tagliente e ruvido di “Charlatan”, che incorpora elementi prossimi al djent in un contesto prettamente prog-rock.
Stavolta davvero non ci sono scuse per amare gli Opeth in veste prog-rock… anche se servono numerosi ascolti per apprezzare appieno questo “In Cauda Venenum”, è un album con un grande potenziale ma che non si dichiara mai apertamente, proprio perché come dicevo all’inizio si è trattato solo di aggiustare piccole cose qua e là; ai primi ascolti potrà sembrare perfino banale e vetusto, una semplice prosecuzione di quanto fatto nei precedenti album, ma col passare degli ascolti vengono a galla la maggior intensità e la maggior convinzione che lo caratterizza, l’ascoltatore è quasi costretto ad arrendersi e ad affermare che quest’album ha diverse marce in più.
Eppure non mi sembra il caso di sminuire i lavori precedenti, ripensandoci “Pale Communion” forniva già un bell’esempio di prog oscuro e convincente seppur molto derivativo e aveva almeno tre brani dotati di una propria identità, “Sorceress” invece aveva delle belle sonorità hard dove la mano degli Opeth si sentiva eccome; l’unico disco forse un po’ spento ed evitabile era “Heritage”, quello sì che era un tantino privo di mordente anche se alla fine lo si ascolta senza problemi.
Proseguire in questa direzione? Non saprei, se l’intensità e l’ispirazione sarà la stessa di “In Cauda Venenum” potrei tranquillamente metterci la firma, però sento che sia arrivato il momento di chiudere il capitolo ed aprire una nuova fase, gli Opeth hanno le potenzialità per andare ovunque. Personalmente considero un peccato non aver proseguito il discorso cominciato con “Ghost Reveries” e confluito in “Watershed”, in quei due dischi avevano creato davvero qualcosa di originale colorando il loro prog death metal con elementi più moderni ed alternative, nuove ritmiche e suoni vintage, un mix troppo riuscito per non essere portato avanti per 1-2 album ancora; in realtà stavano per farlo, hanno recentemente dichiarato che lavorando per “Heritage” erano stati scritti 30-40 minuti di nuova musica che presentava ancora lo stile death per poi pentirsene e cancellarli; sarà che ci ripenseranno?
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