Sarà stata la calca, sarà stata la snervante attesa per l' "apertura dei cancelli" (termine ormai di uso comune anche quando di cancelli non c'è nemmeno l'ombra) ma, col passare del tempo, la serata romana non sembrava così fredda, quanto effettivamente era. Un pubblico eterogeneo si era addossato nei pressi dell'entrata del teatro Alpheus, sorprendentemente c'era gente di ogni tipo, dal ragazzino in chiodo che sta tentando di crescersi i capelli all'uomo con più di qualche primavera dietro le spalle e qualche capello bianco, dai fan accaniti dei Death agli appassionati di musica folk e progressiva.

Il concerto inizia intorno alle 21-21: 30 e ad aprire sono gli Amplifier, band proveniente dalla terra d'Albione: il loro è un rock orientato verso le sonorità più alternative, musica influenzata in buona parte dallo space-rock (c'è un largo uso di suoni effettati) ed una struttura-canzone che è in debito, senza grandi pretese, nei confronti del noise più spartano. La loro esibizione, contrariamente a quanto possa aver pensato la maggior parte del pubblico, è piuttosto coinvolgente -più che altro per chi aveva orecchie anche per loro e non stava sbraitando contro i tre inglesi in attesa degli Opeth-. Gli Amplifier attingono a piene mani dal loro omonimo album in studio di debutto -il migliore, secondo la mia opinione- eseguendo l'opener "Motörhead", "O Fortuna" (l'unica dal loro secondo full-length "Insider"), "Panzer", la trascinante "Neon" (dateci un ascolto) e, come chiusura, "Airborne". Si nota subito qualche problema con l'acustica, il difetto che salta subito all'orecchio è il segnale troppo basso del microfono del cantante; tuttavia ottimo spettacolo il loro, avrebbero sicuramente meritato maggior rispetto e attenzione. Durante questa prima oretta c'è anche tempo per sbattere fuori l'idiota di turno -temibili i buttafuori-, che ha pensato bene di entrare totalmente strafatto e di spendere i soldi del biglietto in modo intelligente (acclamava gli Opeth dal primo minuto e non li ha visti neanche salire sul palco!).

La strumentazione del complesso, abbastanza sconosciuto in Italia -che, a parer mio, sarebbe da osservare con più di un occhio di riguardo- viene portata via dal palco con una sveltezza impensabile, mentre il batterista si prodiga nel lancio di infinite bacchette verso il pubblico esagitato (per la prima volta così dall'inizio dello show… ma a causa delle bacchette gratis!) e il cantante/chitarrista si mostra un po' indeciso, prima di sbaraccare la sua roba, su quali effetti staccare prima -a questo proposito, la sua velocità nel districarsi tra i mille pedalini aveva dell'incredibile-.

Il palco si svuota, sulla sinistra vengono spostati i veli che coprivano le chitarre e i bassi, mentre al centro della scena un lungo telo nero viene portato via per mostrare agli occhi del pubblico già sbavante la batteria con tanto di logo (la celebre, bellissima ed intricatissima "O" di Opeth) sulla gran cassa. Poche manciate di minuti e la band svedese fa il suo ingresso, accolta da un boato che fa tremare la sala dell'Alpheus che di mastodontico ha ben poco (se paragonata a chi ospitava quella sera).

Roma, 1996: concerto di apertura degli svedesi per i Cradle of Filth. Roma, 2006: dopo 10 anni sono cambiate davvero tante cose per gli Opeth, dopo "Orchid" e "Morningrise" (gli unici album in studio pubblicati fino al loro primo concerto romano!) si sono avvicendati una serie di memorabili capolavori, da "My Arms, Your Hearse" a "Ghost Reveries". E c'è anche tempo per giustificare la loro assenza dalla capitale: Mikael spiega che qualcuno disse loro che "non c'è un adeguato pubblico heavy-metal a Roma"… risultato? Un altro boato assordante (e siamo a due, ma ce ne saranno davvero tanti) e un sorriso strappato ad Åkerfeldt e soci che alla fine del concerto, considerata l'invidiabile risposta da parte del pubblico, prometteranno di tornare nel loro prossimo tour.

A parte questi frequenti siparietti, che hanno intervallato gli splendidi brani eseguiti e hanno mostrato un Åkerfeldt eccellente intrattenitore in ottima forma e con uno splendido rapporto col pubblico (alla fine raccoglierà anche dei cd demo piovuti da sotto il palco), parliamo di musica: l'apertura è affidata a "Ghost of Perdition", privata però delle sibilanti note iniziali di chitarra distorta che, almeno nella versione in studio, avevano la capacità di "preparare" l'ascoltatore. Invece, l'inizio della loro performance avviene con inaudita violenza, violenza che si protrae anche con la successiva "When" pescata da "My Arms, Your Hearse", anche questa spogliata dell'intro (che i nostri abbiano voluto lasciare i fans senza fiato?!). Sembrerebbe che i problemi legati all'audio si siano in parte risolti, ma si può avvertire ancora una certa freddezza del suono nel complesso, con la voce che a tratti risulta essere troppo "distante".

La regressione nella carriera discografica della band si ferma per "Bleak" -dalla loro quinta fatica in studio "Blackwater Park"- per poi fare un ulteriore passo indietro, giungendo al 1999 e a "Still Life", da cui gli svedesi prendono in prestito la superba "Face of Melinda"… e nel backstage si intravede la piccola figlia di Åkerfeldt con grandi cuffie che assiste allo splendido brano a lei dedicato.
Il concerto è già nel pieno quando mi arriva la mazzata, ciò per cui avrei dato tutti il denaro speso per biglietto e viaggio ad occhi chiusi, quella "The Night and The Silent Water" che a più di uno, tra il pubblico, ha fatto scendere gelide gocce lungo la fronte e provocato brividi lungo la schiena. Sto parlando della massima espressione dell'arte degli Opeth, chi voglia davvero comprendere quale grande compositore sia Åkerfeldt e da quali grandi musicisti fosse affiancato deve assolutamente dare un ascolto a questa poesia trasposta in musica. Non si tratta solo di uno dei loro pezzi che preferisco, ma anche un sunto del loro modo di concepire la musica; imperdibile, a maggior ragione per chi vorrebbe avvicinarsi al sound targato Opeth per la prima volta.

Il concerto procede con la bistrattata -dalla critica, secondo Åkerfeldt, che per tale motivo si mostra un po' amareggiato- "The Grand Conjuration", poi ancora con un pezzo che in molti tra il pubblico stavano aspettando: "Windowpane", direttamente dall'album "Damnation" del 2003. I toni si fanno più sommessi, qualcuno tra gli spettatori azzarda una piccola fiamma dal proprio accendino, sembra essere tutto perfetto, tutto come sarebbe dovuto andare.
Siamo agli sgoccioli ed ecco "Blackwater Park" dall'omonimo album, un modo un po' bizzarro per chiudere il concerto (sebbene dai più sia considerata straordinaria, questa canzone non mi ha mai attirato molto). Ma, dopo la speciale buonanotte augurata al pubblico direttamente dai nostri (molti, soprattutto quanti li apprezzavano live per la prima volta, come il sottoscritto, erano increduli di averli lì davanti, a pochi metri), la folla rimane immobile, fiduciosa nel ritorno sul palco della band che, colpaccio finale, si esibisce in "Deliverance" dall'omonimo album: il riff finale, che si ripete ossessivamente con la martellante doppia cassa di Martin Axenrot e le 6 e 4 corde che tuonano, non lascia riserve all'headbanging più sfrenato. E questa volta la "good night" sussurrata da Mikael è definitiva e lascia tutti un po' basiti, chi imbambolato, chi già esaltato, chi con gli occhi sbarrati, altri fisicamente -lo sottolineo- distrutti.

Prestazione indimenticabile quella degli Opeth, dal simpaticissimo frontman all'acclamatissimo batterista nuovo di zecca, passando per Peter Lindgren, Martin Mendez e l'uomo dell'oscurità Per Wiber (a dir la verità un po' troppo in ombra durante il concerto, guarda caso!)… inutile presentazione!

Io lascio il teatro con le orecchie che fischiano e questa è l'unica nota negativa -se proprio vogliamo esagerare- della serata. E la mattina dopo, e per i giorni a venire, un sorriso ebete mi è rimasto stampato sul viso, il perché è facilmente intuibile…

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