È uscito soltanto il 25 agosto ma all'atto dell'uscita lo conoscevamo già praticamente a memoria... Il nuovo disco degli Opeth inizialmente previsto per giugno alla fine è stato posticipato ad agosto ma è stato leakato praticamente con una quarantina di giorni d'anticipo, permettendoci così di scoprirne le coordinate anzitempo.

Il precedente "Heritage" aveva fatto sì che il pubblico inchiodasse gli Opeth alla croce per via del suo approccio palesemente scopiazzato dal prog settantiano e privo di un vero tocco di personalità; critiche su critiche su forum, gruppi facebook e altrove...

"Pale Communion" era condannato a diventare il disco del riscatto con cui gli Opeth dovevano dimostrare di non essere una band a corto di idee. Risultato: accontentati alcuni, un po' meno altri.

Quando cominciarono le fasi di scrittura Åkerfeldt parlò di una band a lavoro su qualcosa di decisamente più duro, che sarebbe stato influenzato dall'hard rock dei Black Sabbath; ma come spesso accade il processo cambia e alla fine Mikael si è trovato a realizzare qualcosa di decisamente più melodico. L'album segue grossomodo le coordinate di "Heritage": ancora una volta niente death metal e quindi niente chitarroni pesanti e niente voce in growl, ancora una volta gli Opeth sono pienamente aggrappati al vero progressive rock anni '70, non quello più romantico/sinfonico di Genesis e Yes, piuttosto quello più oscuro dei King Crimson (soprattutto nelle lievi distorsioni di chitarra) o quello più intenso e vagamente jazzato dei Camel. Ma se è vero che l'approccio è ancora piuttosto derivativo, il tocco opethiano che in "Heritage" effettivamente mancava qui invece c'è ed è abbastanza riconoscibile, sia nelle melodie che nei riff. Vengono sfruttate meglio le distorsioni di chitarra e i riverberi, c'è più originalità nei passaggi e tornano prepotenti i fraseggi acustici e gli assoli jazzati che hanno reso celebre il marchio Opeth. Figura poi un nuovo tastierista, Joakim Svalberg, che aveva già fatto una comparsa nel disco precedente suonandone l'overture al piano e successivamente ha accompagnato la band nel tour di "Heritage"; il suo stile tuttavia non sembra particolarmente distante da quello di Per Wiberg: l'influenza è sempre quella del prog settantiano ricco di organi, mellotron, piani elettrici, ecc... Merita di essere particolarmente menzionato il lavoro di Martin Axenrot alla batteria, che sfodera una prestazione veramente eccellente e dinamica, con uno stile molto fusion. In evidenza anche il bassista Martin Mendez; per la verità ho sempre preferito lo stile più creativo, vagamente fusion e sicuramente più in evidenza di DeFarfalla (bassista dei primi due album), per lo stile dell'album sarebbe stato perfetto e più che mai in linea con quanto proposto ma qua Méndez tira fuori delle linee interessanti, si fa sentire decisamente più che in passato anche se il suo lavoro meriterebbe comunque di essere maggiormente valorizzato dalla produzione.

Ad aprire l'album c'è una energica ma melodica "Eternal Rains Will Come", dove si fanno notare il drumming, i passaggi d'organo e le pennate acustiche; il meglio deve ancora venire ma è sicuramente un'ottima opener. Tutt'altra storia la traccia successiva "Cusp of Eternity", da molti criticata perché eccessivamente immediata (effettivamente con la sua abbastanza canonica forma canzone risulta essere il brano più catchy dell'intero catalogo Opeth) o semplicemente considerata come un buon singolo, invece a mio avviso meriterebbe maggior considerazione in quanto è probabilmente la traccia meno derivativa del disco: essa poggia su un riff di chitarra martellato e ripetuto ma mai particolarmente duro ed un ritmo semplice e scorrevole con un drumming senza troppi fronzoli; in più si aggiungono oscuri riverberi di chitarra. Personalmente mi ha ricordato i brani più orecchiabili dei Riverside ma in ogni caso lo trovo il brano più opethiano del lotto; la sua uscita come singolo mi fece assolutamente ben sperare; se l'approccio di questo brano fosse stato approfondito nelle altre tracce probabilmente il prodotto finale dell'album sarebbe stato qualcosa di ben più grandioso, anche se già così l'album è rispettabilissimo.

Arriva poi la ben più lunga "Moon Above, Sun Below" (titolo che sembrerebbe rievocare il kamasutra, forse qualche allusione sessuale nascosta nel titolo??? Bah, chi lo sa...): 10 minuti che alternano riff crimsoniani ben rielaborati, tetri passaggi d'organo, tappeti quasi da film horror, cupe linee di basso e fraseggi acustici in pieno stile Opeth. "Elysian Woes" invece è molto delicata, richiama in maniera evidente lo stile tranquillo e rilassato di "Damnation": arpeggi di chitarra acustica e arrangiamenti di oboe ad accompagnare nella prima metà per poi dare spazio ai bei tappeti di mellotron nella seconda parte. Segue poi la strumentale "Goblin", dalla marcata inflessione fusion e dal sapore vagamente canterburiano, merito soprattutto dei corposi inserti di piano elettrico.

Si entra poi nell'ultima parte, quella forse dove gli Opeth danno il meglio. Il brano "River" è indicato da molti come il migliore dell'album; la prima parte è molto melodica e basata su imponenti fraseggi acustici in pieno stile Opeth, a detta di qualcuno con un'inflessione vagamente southern e country (associazioni forse un tantino forzate?), la seconda parte invece è più derivativa ma eseguita con maestria, colpiscono soprattutto i "colpetti" di organo e le distorsioni di chitarra sono utilizzate in maniera misurata e intelligente. Tuttavia a mio avviso il meglio non sta esattamente in "River" bensì nelle ultime due tracce. "Voice of Treason", spesso poco citata, è a mio parere il brano più creativo e più vario nelle influenze: spuntano arrangiamenti orchestrali assolutamente inusuali per la band, accompagnati da un drumming stavolta meno sciolto, più misurato e più schematico, vi sono interessanti tocchi acustici dal sapore quasi orientaleggiante, come orientaleggiante è l'aria che si respira in tutto il brano... gli Opeth sono creativamente ancora vivi! Gli arrangiamenti orchestrali trovano uno sfogo ancora maggiore nella delicata "Faith in Others", dove costituiscono la colonna portante del brano e regalano una melodia più che mai brillante ed intensa.

Venendo al giudizio finale penso che una affermazione sia scontata: sicuramente superiore ad "Heritage"; non sono mai stato nel fronte contro-Heritage, anzi al tempo lo ascoltai abbastanza, apprezzando il coraggio degli Opeth di buttarsi in territori non propri (cosa che apprezzo - anzi, incentivo - in tutte le band)... ma "Pale Communion", seppur sempre piuttosto derivativo, lo supera per creatività, elaborazione dei singoli elementi e melodie. Non un semplice tentativo d'imitazione come forse lo era "Heritage". Sicuramente mi sarei aspettato qualcosa di ulteriormente più personale e meno derivativo, sicuramente l'ispirazione non è quella dei vecchi tempi ma non possiamo certo lamentarci del prodotto finale, anzi.

Personalmente mi dispiace che gli Opeth non abbiano proseguito il lavoro svolto con "Ghost Reveries" e "Watershed" (anche se con un titolo simile c'era da aspettarselo). Erano riusciti a reinventarsi creando uno stile nuovo che era un perfetto compromesso fra death metal, alternative metal e prog settantiano; in quel tipo di approccio a mio avviso avevano ancora parecchio da dire, io avrei portato avanti quel discorso almeno per altri due album, anche se comunque l'idea di buttarsi nel prog-rock più puro è assolutamente affascinante - soprattutto pensando che si tratta di una band che viene da un passato death metal - probabilmente ci sarei arrivato anch'io prima o poi.

Riguardo al giudizio del pubblico... sono d'accordo su chi dice che se fosse uscito negli anni '70 quest'album sarebbe stato etichettato come un capolavoro ed entrato nella storia. Totalmente in disaccordo con chi invece dice che gli Opeth hanno sputato nel piatto in cui mangiavano (per alcuni addirittura già da "Ghost Reveries") e con chi li giudica "incoerenti". Quasi mi irrita sapere che c'è gente così ottusa da considerare i cambi di stile un quasi tradimento! Cosa volevate? Che ripetessero all'infinito album come "Orchid", "Morningrise", "Still Life" o "Blackwater Park"? Non stanno sputando nel piatto in cui mangiavano! Non stanno ripudiando le proprie origini, stanno semplicemente cambiando, seguendo le intenzioni del momento, vivendo nuove fasi, com'è normale che degli esseri umani facciano! E cambiare non vuol dire essere incoerenti, da quando in qua cambiare è sinonimo di incoerenza?! Se così fosse si darebbe ragione a chi dice che la coerenza non sempre è un valore e il più delle volte anzi è una vera e propria ossessione consistente nel rimanere a tutti i costi aggrappati ai propri principi (come sosteneva Ralph Waldo Emerson e come ripeto continuamente io). Meglio incoerenti che incaponiti su un'idea! D'accordo su chi dice che effettivamente si sono un tantino snaturati (sono il primo ad ammettere che i loro capolavori stanno nella loro vecchia produzione)... ma meglio un po' snaturati che ancorati al proprio sound solo per accontentare fan ottusi (in parte metallari poco open-minded); se rientrate in quest'ultima categoria ascoltatevi gli AC/DC; gli Opeth sono ARTISTI, cioè non amano ripetersi, amano cambiare e non sono lì per accontentare richieste come un disc jockey alla radio.

Chiudendo la parentesi filosofica... Spero che comunque la band sviluppi meglio in futuro le idee migliori presenti in quest'album; siamo comunque sulla buona strada ma sfruttandole al meglio potrebbero produrre magari qualcosa di veramente interessante, magari diventando una delle promesse del prog moderno più oscuro. Per il momento godiamoci questo ottimo "Pale Communion".

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