Mai titolo fu più azzeccato. Un altro, egualmente calzante, potrebbe essere stato "Fuciliata nei coglioni", poiché il gruppo scandinavo capitanato da It (mastermind anche degli Abruptum, altra entità non certo dedita alla musica più spassosa del pianeta) mira dritto dritto alle vostre palle. E c'è da dire che il bersaglio viene colto in pieno.

Mai intro fu più ingannevole: una chitarra acustica, tastiere fiabesche, un vocione epico, un assolo addirittura melodico. . . quante cose accadranno in questi settanta minuti, uno può pensare, e invece, già dalle prime note della successiva "Black as Sin, Pale as Death/Autumn Whispers" (tipico il doppio titolo negli Ophthlamia, il loro mito si regge anche su stronzate di questo tipo), è possibile, con l'occhio di poi, trarre le coordinate stilistiche dell'intero album. Un album incredibilmente vario nelle soluzioni ma al tempo stesso mortalmente soporifero. Come spiegare tale contraddizione di termini? Cercherò di rendere l'idea.

Questo "Via Dolorosa" costituisce senz'altro un'esperienza unica nel vasto panorama della musica estrema, che nemmeno gli stessi Ophthalamia (a mio parere il gruppo black più pregevole, insieme ai Dissection, che la Svezia ci ha regalato) riusciranno a ripetere (partiti con il doom di "A Journey in Darkness", il mio preferito, naturalmente nella versione ritoccata del 97, quella uscita sotto il nome di "A Long Journey", vireranno in futuro verso le atmosfere epiche dell'altrettanto buono "Dominion").

Innegabilmente black metal, la musica qui contenuta si pone come negazione assoluta dei pilastri fondanti del genere stesso (per lo meno da un punto di vista formale): non troveremo di certo velocità, gelidi riff protratti all'infinito, chitarre zanzarose ed un suono sporco. Solo la voce gracchiante di Legion (ugola dei ben più famosi Marduk, qui in grandissima forma), qualche passaggio più tirato e l'atmosfera misantropica e desolante che aleggia dal primo all'ultimo istante, ci ricordano che si tratta pur sempre di vecchio e buon black metal. Per il resto, ogni velleità di classificazione è vana.

Se per esempio il riffing chitarristico è di evidente matrice sabbathiana, e i tempi non sono mai praticamente tirati, non me la sentirei di parlare di doom in senso stretto, per lo meno come lo è stato in passato per la band stessa. Questo per due ragioni. Anzitutto, per via della produzione veramente cristallina e pulita, il sound non si fa mai veramente pesante e pachidermico, tanto che è possibile perfino udire le pennate del basso che accompagnano le note della chitarra, la quale richiama piuttosto l'immagine di un serpentello che svirgola veloce o di un piccolo insetto che saltella qua e là (immagini che non risultano proprio tipici del doom!). L'impressione è che It, che di certo non brilla per capacità di sintesi, abbia voluto buttare su questo disco tutti i riff che gli passavano per la testa nel 95, senza effettuare selezione alcuna. Si potrebbe quasi sostenere che ci sono più note qui che in un qualsiasi album dei Dream Theater, ed è tutto dire. La manina del chitarrista, lungi dal tessere virtuosismi, di fatto non sembra trovar posa sulla tastiera, compiendo continue evoluzioni e sciorinando note su note, per lo più passaggi melodici, ma talvolta anche qualche riff più corposo che tradisce un amore incondizionato per i pattern chitarristici di sua maestà Tony Iommi. In questo c'è da dire che se a tratti It incoccia l'accordo vincente, altre volte non riesce ad apparire egualmente convincente, disperdendo così l'efficacia di certe buone intuizioni.

L'altro motivo per cui non mi sento di dire che ci troviamo innanzi ad un disco doom è il lavoro compiuto dietro alle pelli da Winter (che dalla ghigna mi pare il batterista degli Edge of Sanity sotto mentite spoglie, ma non ci metterei la mano sul fuoco), che non è secondo, in quanto a varietà ed inconcludenza, allo schitarrare del suo capo. Sempre preciso e scoppiettante, di fatto, si lancia in spericolate acrobazie all'inseguimento delle evoluzioni del poliedrico chitarrista, spesso privilegiando i tempi dispari, a tratti rasentando perfino partiture più vicine al mondo del jazz, senza mai comunque suonare veramente progressivo e sperimentale, come per esempio possono risultare, in un contesto estremo, un Sean Reinart o un Richard Christy. Se posso fare un accostamento azzardato, mi viene in mente piuttosto lo stile del protagonista del "Tamburo di latta" di Gunter Grass.

L'impressione non è comunque mai di caos o rarefazione, piuttosto l'album sembra essere animato da un meccanismo ad orologeria, dove chitarra, basso e batteria non sbagliano un colpo, suonano all'unisono, seguendo tracciati ben precisi, compiendo repentine inversioni di marcia e cambi d'umore (stacchi malinconici, virate epiche, momenti oppressivi), senza peraltro perdere il senso della struttura, visto che nonostante le diverse peripezie, le song riescono a conservare uno schema strofa-ritornello.

Quel che ne viene fuori è qualcosa che risulta in pari modo prolisso ed affascinante. Prolisso perché difficilmente c'imbatteremo in passaggi geniali che desteranno la nostra attenzione o in melodie accattivanti capaci di scuoterci. Avremmo piuttosto l'impressione che le continue variazioni non ci porteranno da alcuna parte, né ci condurranno a crescendo trascinanti o a picchi di particolare intensità. Ci chiederemo pertanto quale sia il senso di questo piatto procedere, che alla lunga non può che risultarci sterile e un po' fine a se stesso, se non quello di catapultarci nelle braccia di Morfeo.  . . quante dormite c'ho fatto. . . eppure ogni volta rinasceva la voglia di tornare a questo lavoro per cercare di capirne la ragion d'essere, ma anche  perché è comunque difficile resistere al potere estraniante di queste atmosfere veramente inedite, alla "tristezza strana" che emana questa chitarrina solitaria, alle visioni e ai paesaggi che scaturiscono dall'ascolto, al senso del viaggio spirituale che trasuda l'opera, che di fatto costituisce un excursus sul senso dell'esistenza in questo mondo (la Via Dolorosa) attraverso il susseguirsi delle stagioni, che vanno a simboleggiare le fasi che scandiscono la parabola della vita, il suo fiorire come l'appassire. Un viaggio che affascina, che è in grado di incutere angoscia nonostante si tratti di una musica tutto sommato luminosa e varia (si prenda con cautela questa affermazione), che riconduce ad un mondo fantastico e fiabesco, un po' come suggerisce la copertina, variopinta e sognante, veramente insolita per una band dedita al black.

Se in effetti un primo ascolto non potrà che risultare traumatico, quelli successivi (sempre e comunque traumatici) potranno svelare di volta in volta nuovi dettagli, dimostrando che sotto l'ostica scorza si cela una reale profondità, una ricerca di sonorità ed atmosfere affatto banali e scontate (missione che da sempre anima questa  band davvero unica ed imprescindibile per l'intera scena). E così, in questo labirinto di tristi melodie, di passaggi carichi di pathos epico, di inutili arzigogoli paranoici, è possibile scorgere brevi parentesi acustiche (a cura del fondamentale Night, anche al basso), oscure narrazioni, inquietanti sussurri, momenti di teatralità vocale, brevi sfuriate, piccoli preziosismi che vanno saputi scovare in queste composizioni apparentemente sconclusionate, che arrivano a toccare anche i dieci minuti di durata.

Le tristi note di pianoforte della conclusiva "Message to Those After Me/Death Embrace Me (part II)" saranno un sollievo per le nostre orecchie e il nostro cervello, poiché il viaggio è stato spossante, e, a prescindere dagli ascolti che vorremo dedicare a questa opera, non penso si potrà arrivare ad una sua piena comprensione, data l'autismo che ispira il concepimento e lo sviluppo della stessa. Del resto, se penso a tutto il tempo che ho perso con questo album, mi vien da pensare a quanto poco abbia trombato nella mia vita.

Da citare infine la pregevole cover di "Deathcrush" dei seminali Mayhem, posta al termine come bonus track, che si rifà direttamente alla versione contenuta in "Live in Leipzig", aprendosi di fatto con quel "only death is real" che Dead utilizzò per presentare il pezzo ed aprire il concerto. (L'album, per la cronaca, è dedicato al famigerato Inner Circle, e al tempo stesso vuole essere un "BIG fuck off" al "cunt krishna").

P. S. attento Conte, It non te la perdona. . .         

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