Nel luglio del 1969 la Fallaci che ci regala questa preziosa testimonianza “in diretta” dello sbarco sulla Luna ha appena compiuto quarant’anni ed è al massimo della sua maturità di giornalista e di scrittrice. Reporter appassionata e passionale, il suo resoconto non ha perso di attualità proprio per la solida documentazione che si avverte dietro ad ogni affermazione: ancor più notevole considerando che in quegli anni non c’era alcun supporto da internet e solo la ricerca personale diretta, verificando sul campo le proprie fonti, poteva dare autorità storica ad ogni affermazione giornalistica.

In questo libro, per quelli della mia generazione che avevano vissuto le tappe della corsa americana allo spazio come una eroica rincorsa dei “buoni” americani, colpiscono ancora oggi le sue descrizioni smitizzanti degli astronauti, per i quali la missione Apollo non era tutto sommato diversa dalle operazioni di combattimento che quegli stessi uomini avevano condotto in Corea pochi anni prima. E riportandoci alla contemporaneità non si scorda mai la Fallaci che mentre eravamo tutti lì a monitorare il lancio dell’Apollo, il viaggio e l’allunaggio, in Vietnam – dove peraltro lei era stata al lungo come corrispondente di guerra - si continuava a combattere: “L’ultimo soldatino che va all’assalto di una trincea, l’ultimo vietcong che si getta contro un carro armato, è mille volte più coraggioso degli astronauti che vanno sulla Luna”.

Non per questo le sfugge l’epicità del momento (“ci vorrebbe Omero per descrivere quel che vedo!”) e nell’incipit del libro le sue parole si caricano di enfasi descrivendo la dimensione ciclopica della rampa di lancio: un razzo di “altezza equivalente a un grattacielo con trentasei piani”. Diventa invece più prosaica quando descrive i rischi per la Terra della contaminazione di un “qualcosa di lunare” che avesse potuto sfuggire al controllo degli scienziati, ma oggi – chi l’avrebbe mai detto - queste allusioni a un virus sconosciuto sono tornate di sorprendente attualità.

Ancora due osservazioni tra le tante possibili a margine del tema principale. La prima riguarda Von Braun, il geniale progettista del razzo Saturno, ma con un passato che lo lega alle V2 naziste su Londra, di cui la Fallaci rimarca l’imbarazzo a rispondere alla domanda di un giornalista tedesco, richiesto nella propria lingua madre. La seconda è una nota semantica e un’indiretta lezione contro l’ipocrisia: “Non ci sono negri alla NASA” scrive la Fallaci nella prefazione e poi di nuovo rimarca “i poveri negri” che protestano davanti ai cancelli di Cape Kennedy; oggi scriveremmo afro-americani, ma per molte cose la sostanza non sarebbe diversa.

QUEL GIORNO SULLA LUNA si rivela dunque assai più di un instant book celebrativo per un evento unico nella storia dell’umanità e ancora oggi ci parla con efficacia e ci fa riflettere. Anche se – per una certa sua aggressività e presunzione che si sono accentuate nel corso degli anni - non l’abbi mai amata molto, la Fallaci ci dà qui un esempio di grande giornalismo senza genuflessioni. Consigliato per i giovani che non c’erano e per tutti quelli che da bambini sognavano di fare l’astronauta.

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