Verso gli anni '60 il jazz stava diventando un fenomeno un po' troppo classico. Era di moda applaudire questo o quell'artista così preparato tecnicamente e la cui spiritualità si esprimeva in eclatanti esibizioni comunque osannate. Persino quelle contesse incompetenti si gettavano in scroscianti riverenze alla mercè della tendenza dell'epoca. Se c'è una cosa bella del jazz è che è intimo. Il jazz di massa odorava di paradosso.
Ed ecco che interviene il principe della spavalda ribellione di un jazz che aveva involontariamente strabordato dai suoi storicamente contenuti argini.
Faccio un salto indietro. Nel 2003 assistevo, nell'umida provincia di Brescia, ad un omaggio di 4 musicisti ad Ornette Coleman. L'esibizione era gratuita e si svolgeva in un contesto storico più che mai gradevole. Spettatori: una trentina. Molti arrivavano, subodoravano la pesantezza e la difficile successione delle armonie e sgattaiolavano via scontenti e a testa bassa. Io nel mio angolino sogghignavo eccitato nel vedere i musicisti accaldati e in fibrillazione nell'eseguire il maestoso free di Coleman per più di un'ora, bruciando 10000 calorie. Sapevate che il free dal vivo è un'esperienza mistica? Non mi ero mai accorto potesse trasmettere tanto, e tanto piacevole era vedere che dividevo l'emozione con pochi, intimi, spettatori. Alla fine dell'esibizione il leader affermò che il free non può e non deve fare paura, ed ancora troppa poca gente gli si avvicina.
Tutto questa premessa per parlare di "The Shape Of Jazz To Come" del 1959. Va detto che all'epoca Coleman fu accusato di aver ammazzato il jazz. I suoi primi lavori furono editi dalla Contemporary, grazie alla spregiudicatezza di qualche produttore, e con la nuova etichetta, la Atlantic, l'artista texano si prepara ad orizzonti ancora più grandi. In verità Ornette stava compiendo una missione: dare un calcio alla formalità in cui il jazz stava attestandosi.
6 brani, apre lo standard "Lonely Woman" su cui Metheny ha costruito uno degli album più spregiudicati della sua carriera: Rejoicing (qui su debaser splendidamente recensito dal buon symbad the bassist) dove il percorso musicale intrapreso profuma di ispido free D.O.C.G.
Torniamo a Coleman. In questo lavoro si descrive la libertà implicita, ma vigilata, del jazz. Si rompono gli schemi armonici, si distruggono gli aspetti melodici usando sonorità che fino a quel momento si potevano considerare solo cacofoniche. Tra i musicisti c'è il buon bassista Charlie Haden. Il quartetto base si completa con Don Cherry alla tromba e Billie Higgins alla batteria.
Che ci crediate o no, a Ornette questi due artisti appena sopraccitati stavano stretti: troppo classici, troppo ordinati, incredibilmente inadatti a suoi successivi progetti free.
Qualcuno di voi penserà subito alle sperimentazioni di Mingus o alle digressioni di Lennie Tristano. Ma il Free Jazz di Coleman è altro. In effetti il suo eccesso di improvvisazione può pesare fino a che non arriva la capacità compositiva comunque trasparente, quasi rigorosa e tradizionale. Tutta la sua musica deriva dallo spirito blues, anche se nella sua produzione scritta non ci sono blues canonici. Quando dico tradizionale, intendo alla tradizione culturale tipica (anche se con la sfacciataggine del ribelle). Maestro delle ballad, oltre a "Lonely Woman" ci sono pezzi burloni come "Peace" o "Congeniality" dove emerge un chiaro senso di rifiuto arbitrario.
Un album certamente non facile, richiede pazienza e concentrazione e promette grandi cose fin dai primi accordi. Imparare a seguirlo è un esercizio che necessita freschezza mentale per un approccio con la testa, senza dimenticare il cuore.
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