Una qualsiasi forma di manifestazione artistica non è mai un atto esclusivamente soggettivo, ma diviene anche l'espressione della cultura in cui matura l'Io creativo dell'artista. 

Vero è che, dal dopoguerra ad oggi, la cultura occidentale si è andata repentinamente ad uniformare, appiattendosi sul modello anglosassone, mentre di pari passo le peculiarità locali sono andate via via sbiadendo: nella musica cosiddetta di "consumo", l'Io artistico viene così filtrato da convezioni, schemi e formule preesistenti, mentre le diverse identità nazionali, il più delle volte, son finite per diventare quel tocco di pepe atto a rendere via via più saporita una ricetta sostanzialmente standardizzata.

Tanto che, da questa parte del mondo, ai fini della gestazione artistica, essere nati in un luogo piuttosto che in un altro, è divenuta per molti una mera questione di anagrafe.

 Cosa che non vale di certo per gli Orplid, tedeschi di Germania, da annoverare fra gli alfieri più sinceri della nuova ondata di band neo-folk sbocciate in terra tedesca.

Perché ancor più dei connazionali Forseti e Sonne Hagal, gli Orplid riescono a far prevalere la loro identità culturale su tutto il resto.

Non basta evidentemente agli Orplid adottare la lingua madre e rifugiarsi in un folk atavico e dai sapori squisitamente europei, né mimetizzarsi nella maestosità della natura o lanciarsi alla scoperta dei segreti delle rune: gli Orplid ambiscono a ben altro, ossia a fluttuare e smaterializzarsi nei vapori e negli effluvi dello spirito vasto ed infinito dell'Uomo.

 E qui mi riallaccio al discorso iniziale, dato che un'impresa del genere è da leggersi, a mio parere, come la più tipica ambizione di una cultura che tende all'Assoluto come quella tedesca.

E a questo punto il discorso si fa complicato e il rischio di scadere in luoghi comuni si fa serio. Ma pensiamo un momento, senza grandi ambizioni analitiche, alle qualità che ci evoca il carattere di un "tedesco medio": ci verrà in mente una persona rigida, fredda, metodica, dalla mentalità schematica, categorica, rigorosa, pragmatica, ma al contempo uno spirito ardente, passionale, universalizzante, in perenne tensione.

Ebbene, tutte queste caratteristiche (nel bene e nel male) le ritroviamo nella musica degli Orplid, e state certi che in questo "Nächtliche Jünger" non stenterete a riconoscere quell'insieme di umori e di sentimenti che percorrono da sempre la letteratura, il pensiero e l'arte tedesca, da Goethe, a Hegel, Marx, Nietzsche, Hesse, Herzog fino a Wagner (giusto per rimanere nei luoghi comuni).

E se confesso di non aver mai digerito fino in fondo la scelta da parte di molte band tedesche di adottare la lingua madre (che, personalmente parlando, trovo aspra, spigolosa e per certi aspetti antiestetica), nel caso degli Orplid mi rendo conto che non poteva essere altrimenti.

 Uwe Nolte e Frank Machau, giunti al secondo album, confezionano così il loro capolavoro, a dimostrazione che i miracoli si compiono ancora (è il 2002), anche all'interno di un genere asfittico come il folk apocalittico.

Ma cosa hanno in più gli Orplid rispetto agli altri?

Anzitutto sanno suonare: la chitarra acustica, sempre ispirata, richiama alla mente il tocco elegante e cristallino del divino Michael Cashmore dei Current 93. Le tastiere, sempre presenti, accompagnano le evoluzioni della chitarra, talvolta limitandosi a sottolineare i passaggi più significativi, talvolta mimando orchestre intere, disegnando avanzate talmente possenti, così nitide e ben arrangiate, da far venire il dubbio che i Nostri si siano in realtà avvalsi di un ensemble di musicisti in carne ed ossa.

La professionalità e l'accuratezza con cui il tutto è confezionato non fanno che valorizzare gli eccelsi contenuti: 14 mo(nu)menti che vanno a comporre un quadro compatto, coerente, rigoroso, ma al tempo stesso composito, ricco di spunti e soluzioni ben collocate, affinché la tensione che anima l'intera opera, come la curiosità dell'ascoltatore, non venga mai ad affievolirsi.

Questo grazie ad un uso intelligente delle chitarre elettriche, che senza contaminare il mood acustico dell'opera, vanno a tingere di colori inediti le aggraziate escursioni folcloristiche.

Questo grazie alle provvidenziali incursioni di una dolcissima voce femminile, che ci delizierà (nel vero senso del termine) in più occasioni, spezzando talvolta la tensione generata dal plumbeo canto maschile.

Questo, infine, grazie all'impiego misurato di percussioni e campionamenti, che lungi dal mascherare eventuali lacune tecniche (che non sussistono!), addobbano, a volte sporcano, un folk che non disconosce del tutto le sue origini industriali.

E pazienza se l'enfasi del vocione, a tratti irresistibile, a tratti (ahimè) grottesco e sopra le righe, ci potrà apparire eccessiva: non poteva essere altrimenti.

 Una breve introduzione acustica è il degno preludio al viaggio: in essa si respira il gelo, l'epicità, l'impeto tragico e fatale della musica degli Orplid.

"Erzengel Michael", poderoso brano d'apertura, è un folk che già dalle prime note è in grado di rapirci e portare lontano: gli arpeggi sornioni e i rintocchi fanciulleschi di uno xilofono richiamano alla mente i Death in June più sentimentali, e pure la voce, un fermo ed imperturbabile tenore, ci ricorda, almeno inizialmente, quella di Douglas P..
Ma il ritornello evocativo, l'ispirato e sofferto canto, che trema e freme per un suo intimo impeto incontenibile, sono eloquenti avvisaglie del fatto che non ci troviamo innanzi all'ennesima entità-clone della Morte in Giugno: il folk degli Orplid è un folk romantico, cruento ed appassionato come raramente ci è capitato di sentire, e di questo avremo la certezza tangibile a metà del brano, quando esploderanno i fiati e le orchestrazioni in un crescendo che vi agguanterà il cuore con violenza e vi strapperà via da questo mondo, piangenti, fra le nuvole e i venti e il volo spericolato e solenne delle Valchirie. Epocale, universale, eterno: questi i termini atti a descrivere visioni di un'intensità davvero rara, dove le chitarre scandiscono con trasporto il trascorrere di epoche intere, dove le orchestrazioni, il fruscio dei piatti, il rimbombare delle percussioni distruggono le meschinità e le brutture di questo mondo, dove l'aspro e gelido tonare della voce ci sgrida dall'alto della volta celeste, al di là delle nuvole e dei vento e dei fulmini del cielo.
 Le orchestre collassano, la voce si stempera in un grido deformato che sembra precipitare dalle stelle, risuona nel vuoto il soliloquio dello xilofono. Silenzio.

Gorgogliano limpide le acque placide di un ruscelletto: è la dolcezza di una "Auf unbekanntem Pfade", parentesi riflessiva che ci trasporta in lande incontaminate e pure, un momento di struggente nostalgia (si sentano i commoventi rimpalli fra canto e controcanti), una pausa necessaria per poter riprendere fiato dopo il terremotante brano d'apertura.

Irrompe un arpeggio distorto, la tensione sale nuovamente con "Später Tag", sporcata dalle efferatezze di una chitarra elettrica, che ben si amalgama a quella acustica, riportandoci nondimeno alla mente un altro "campione del Nord": l'indimenticato Quorthon dei Bathory.

La poesia delle chitarre, gli assoli che piovono vorticosi dal cielo, poi l'elettricità sfuma: ondeggiando sospesi, veniamo gentilmente posati a terra. La title-track è un brano per sole percussioni, voce e partiture d'organo: un inno solenne e sofferto percorso da una impalpabile tensione sottocutanea, un fremere destinato ad affiorare sotto forma di intense sinfonie apocalittiche, dove la voce di un soprano cresce e cresce fino a liquefarsi per poi accasciarsi e ripiombare affranto nel niente da dove era venuto.

"Winternacht", aperta con malinconia da un arpeggio che pare rubato ai Current 93 più ispirati, è una ballata d'intensità morriconiana: suadenti archi accarezzano le movenze gentili della chitarra, la quale descrive paesaggi fantastici, viste autunnali su mondi selvaggi e bellissimi, mentre le orchestrazioni incalzano epiche, per poi placarsi e spengersi dolcemente nel sibilare del vento.

Un continuo salire e scendere, questo "Nächtliche Jünger", dove spesso la tensione si avverte senza che essa debba necessariamente esplodere, come una scossa, un'energia latente che affiora in noi, c'invade per un istante, irrefrenabile, per poi tornare a fluire negli anfratti più reconditi del nostro Essere.

 Dal silenzio emerge un arpeggio, la pausa d'un istante, poi i solenni rintocchi di un pianoforte e la struggente voce di Nadine Spindler che recita i versi della sublime "Das Mädchen aus der Fremde" di Friedrich Schiller. Una parentesi che si candida senz'altro a presenziare fra i momenti più entusiasmanti dell'opera, complice la bellissima voce della Splindler, teutonica fino al midollo, dolce ed ispirata come non mai.

Si parlava di un uso intelligente della chitarra elettrica, e allora come non accennare agli strascichi di feedback che squarciano "Im Schatten der Queste", o all'intenso finale di "Stille", dove trame acustiche ed elettriche s'intrecciano in melodie da pelle d'oca, fra il franare obliquo degli archi e l'affanno di un pianoforte inquieto.

"Söhne der Ares" recide il filo della tensione irrompendo baldanzosa con la cadenza fracassona e la spacconeria di una ballata degna di un film western (impressione confermata dalla voce, che osa approssimarsi all'epico "baritoneggiare" di certi folk-singer americani). Ma se di film western si deve trattare, allora si parla senz'altro di un western ambientato, non in deserti polverosi, bensì fra le rovine e la desolazione di una Berlino devastata dai bombardamenti.

La raffinata "Abendstern" è l'intenso proseguo del viaggio: un folk visionario arricchito da candidi arpeggi di chitarra elettrica che riconducono la musica degli Orplid al mood malinconico ed intimo di uno struggente cantautorato.

"Maria", altro capolavoro dell'opera, torna a cavalcare gli umori epici con cui si era aperto l'album: da brividi, a mio parere, la chiusura affidata ad un delicato pianoforte, le cui note vanno, danzando, ad accompagnare lontani gorgheggi femminili, persi fra l'ingenuo cinguettare degli uccellini.

 Nello scorcio finale dell'opera trova spazio, infine, l'anima più propriamente apocalittica degli Orplid, che ci riporta alle atmosfere dell'omonimo debutto.

"Auferstehung" è una fosca parentesi strumentale dove possenti archi incalzano maestosi, ergendosi, fra morbosi sospiri e cori da fine del mondo, alla stregua di monumenti decrepiti e divorati dal tempo e dalle intemperanze del gelo e del fuoco.

"Inneres Heer" chiude la perlustrazione emotiva dei Nostri all'insegna della tracotanza marziale delle percussioni e degli strappi di un'elettronica che va a sporcare l'irrequietudine di una ballata minacciosa, tesa, infestata da voci nere ed appiccicose come il catrame.

 Come afferma il Sommo Poeta, che ci viene in soccorso proprio quando non troviamo parole atte a descrivere i nostri sentimenti, "che la vita dell'uomo sia soltanto un sogno è già stato affermato da molti, e tale sentimento incessantemente nasce anche in me. Quando considero i limiti entro cui sono rinserrate le forze attive e speculative dell'uomo, quando vedo che ogni attività mira all'unico scopo di soddisfare i bisogni, i quali a loro volta, servono soltanto a prolungare la misera esistenza, e poi comprendo che la tranquillità su certi punti delle nostre speculazioni non è altro che fantastica rassegnazione, perché dipingiamo soltanto variopinte figure e luminosi panorami sulle pareti fra le quali siamo prigionieri, tutto ciò mi rende muto. Rientro in me stesso e trovo un universo! Ma formato più di presentimenti e di oscuri desideri che di immagini e di forze viventi. Allora tutto si confonde davanti ai miei sensi, ed io sorrido e continuo a sognare nel mondo".

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