Rileggo Il ritratto di Dorian Gray a oltre vent'anni dalla prima volta e mi sembra di leggere un romanzo completamente diverso. In effetti è diverso: il libro che lessi a 16 anni era l'edizione "standard" a venti capitoli uscita in volume nel 1891, mentre quello che leggo stavolta a 39 anni è l'edizione a tredici capitoli inviata da Oscar Wilde alla rivista letteraria che gliel'aveva commissionata e che la pubblicò (censurata) nel 1890, e che era rimasta inedita fino al 2011 (2014 in italiano per Mondadori). In totale sono note almeno quattro versioni del romanzo: il manoscritto di Wilde (probabile bella copia di una precedente brutta copia perduta), il dattiloscritto da lui riveduto & corretto e approvato, l'edizione censurata su rivista e l'edizione censurata e allungata su volume: poiché la seconda è la versione del romanzo come l'aveva pensato Wilde, è la versione considerabile "vera" e "originale", e questa è quella che ho letto stavolta. Ed è sconvolgente.

In realtà già la prima volta che lo lessi Il ritratto di Dorian Gray mi aveva sconvolto, ma in maniera del tutto diversa. Scelsi di leggerlo per l'aura risqué che emanava a causa del suo scandaloso autore: figuriamoci, per un ragazzino di provicia negli anni '90 la sola idea di leggere un libro di un autore famigeratamente non eterosessuale era motivo d'imbarazzo già davanti alla commessa della libreria a cui lo si mostrava per comprarlo, e a casa poi andava tenuto ben nascosto dallo sguardo dei genitori, sennò chissà che pensavano. Eppure il libro non mi sconvolse affatto per i motivi proibitissimi che mi ero immaginato: forse perché ero vicino d'età a Dorian, mi colpì invece la sua vita di bagordi, la ricchezza di esperienze, il vitalismo superomistico tipicamente fineottocentesco, e naturalmente non colsi affatto l'omosessualità di (almeno) un personaggio, anche per il fatto che era l'edizione 1891, in effetti censurata e attenuata nei suoi passaggi più espliciti.

Stavolta è tutto diverso, ma non tanto per la sbandierata questione del sottotesto omosessuale, sottolineata anche in quarta di copertina, che è quantitativamente irrisoria ed estremamente relativa al giorno d'oggi in cui, finalmente, l'identità queer non è più un tabù. Basandosi rigorosamente sul dattiloscritto originale del 1890, la nuova versione curata da Nicholas Frankel ristabilisce in totale circa 500 parole, comprese alcune parti che potevano essere scandalose e allusive solo in un ambiente paranoico come l'Inghilterra vittoriana, dato che frasi al tempo eliminate come «gli mise una mano sulla spalla» oggi decisamente non fanno più saltare sulla sedia. Molto più esplicito e chiaro l'uso di termini specifici come «amore», «rapporto sentimentale» o «venerazione» usati da un personaggio maschile verso un altro, ma di nuovo: quello che al tempo poteva essere un rapporto intollerabile oggi appare semplicemente come un amore tristemente non consumato per via di assurdi paletti (im)morali. In breve, chi legge questa versione non censurata sperando di trovarci scene esplicite e rapporti erotici, resterà deluso.

Invece, quello che davvero sconvolge dell'edizione 1890 de Il ritratto di Dorian Gray è la sua profondità tematica. Forse è solo perché adesso sono più vicino all'età di Henry e Basil, ma per tutto il tempo, e sopratutto dalla seconda metà in poi, e soprattutto nel clamoroso capitolo IX (XI nell'edizione 1891), il romanzo mi ha causato letteralmente del dolore fisico per la sua velata ma costante prefigurazione della morte, per il senso di ineluttabile e irrecuperabile scorrere del tempo, per il fatto incontrovertibile che la vita sta finendo, sta già finendo, il giorno della morte è già adesso più vicino di quello della nascita, e prima o poi morirò io, moriranno i miei cari, moriremo tutti. Non c'è modo, non c'è scampo, non c'è speranza.

Non c'è nemmeno nient'altro a parte sé stessi. Nell'edizione 1891, su richiesta dell'editore Wilde aggiunse molto materiale che distraeva dalla storia di Dorian: episodi riempitivi inseriti a scopo moralistico, come quello inutilmente melodrammatico del fratello di Sybil, che rendevano la vicenda intrecciata e avventurosa, da romanzo d'appendice. Nell'edizione 1890 questi episodi erano del tutto assenti e non annacquavano la questione principale e cioè il grande memento mori rappresentato dal ritratto e dalla preghiera di Dorian a sé stesso e per sé stesso.

Wilde, 35enne al tempo della stesura del romanzo, quindi non più giovanissimo per gli standard del tempo, Bachelor of Arts a Oxford e profondo conoscitore d'arte e di filosofia, inserì nel suo romanzo in maniera magistrale i concetti di tempus fugit e di vanitas, senza mai nominarli eppure rendendoli sempre percepibili, nascosti ma bene in vista, intessuti fra le frasi come fili d'oro che emergono brevemente e poi affondano sotto la superficie visibile di un tessuto prezioso. Il fascino terribile de Il ritratto di Dorian Gray sta nel fatto che, nel raccontare una storia assurda e inverosimile, sta in realtà raccontando la più comune e quotidiana delle esperienze: la morte.

Oltre alla maggiore chiarezza testuale, oltre alla maggiore asciuttezza e messa a fuoco tematica, e oltre alla mia maggiore età, un'altra parte determinante della diversa impressione fattami da questo Il ritratto di Dorian Gray come lo voleva Wilde è da attribuirsi alla fortunata coincidenza per cui l'ho letto fra un volume e l’altro di Alla ricerca del tempo perduto di Marcel Proust. I due scrittori si conoscevano e si leggevano a vicenda e, personalmente, non ho alcun dubbio che Proust abbia letto Il ritratto di Dorian Gray e ne abbia tratto ispirazione in più punti per il suo romanzo iniziato nel 1906, ben 16 anni dopo quello di Wilde. Le analogie fra le due opere sono macroscopiche e includono l'uso ossessivo della parola "tempo" e del suo passaggio, la descrizione della città come luogo immortale della vita mortale, gli ambienti altolocati e quelli degradati, i personaggi sessualmente ambigui, le considerazioni sul ruolo e sulla forma dell'arte, e soprattutto il portentoso tema della memoria e del riaffiorare delle memoria sepolta quando stimolata dai cinque sensi, abbozzato da Wilde nel capitolo XIII (XIX nell'edizione 1891) in una scena in cui Dorian suona Chopin al pianoforte, evidente prefigurazione della sonata di Vinteuil, e poi sviluppato da Proust nelle sue mille stimolazioni sensoriali, a partire dalla madeleine in poi.

Se tutta questa enorme ricchezza tematica non bastasse ancora, o forse proprio per smussare il peso di tanta ricchezza tematica e renderla leggibile al grande pubblico, Il ritratto di Dorian Gray è anche un perfetto esempio di quello che c'è sempre in un qualunque testo di Wilde: una sagacia inimitabile, un umorismo irresistibile, una capacità geniale di cogliere la realtà e sintetizzarla in aforismi fulminanti, una raffinatezza stilistica sublime, e ultimo ma non meno importante un terroir intellettuale gigantesco eppure nient'affatto esibito (i riferimenti classicisti sono innumerevoli, ma anche senza coglierli la lettura scorre benissimo lo stesso). Una prosa apparentemente semplice nella forma, eppure perfetta nella sua sintesi, in grado di «riassumere la vita intera in una frase», come sa fare quel personaggio memorabile che è Lord Henry Wotton.

Proprio l’innegabile capacità magnetica del romanzo è il motivo per cui non ha mai vissuto momenti d'insuccesso critico o commerciale, a parte nel periodo subito dopo la pubblicazione in cui fu osteggiato in ogni modo e anche usato come prova in tribunale contro Wilde in quanto «romanzo depravato». Solo al cinema, per esempio, ne sono stati tratti ben dieci film, il primo già nel 1910; quello del 1945 è fra i migliori, benché alteri notevolmente la trama per renderla ancora più pulp e melodrammatica, non foss'altro per Angela Lansbury canterina e soprattutto per il bellissimo ritratto di Dorian (a colori in un film in bianco e nero!) dipinto da Henrique Medina nella versione da giovane e da Ivan Albright nella versione da vecchio: quest'ultimo mostra Dorian con abiti sporcati apparentemente da materiali biologici e con il volto segnato da pustole e piaghe varie chiaramente causate da malattie veneree e da pratiche erotiche non molto igieniche, il che fornisce una convincente interpretazione di cosa intendesse Wilde quando parla dei «vizi» di Dorian (per quanto il lettore possa e debba invece leggerci quel che vuole, magari i propri vizi).

Ecco dunque un romanzo straordinariamente ricco, profondo, stratificato, affascinante e inquietante a un tempo, scritto come meglio non si potrebbe, straordinariamente risuonante con il lettore e in maniere del tutto diverse in base alle sue diverse condizioni e periodi di vita, e per di più con una storia editoriale complessa che rappresenta in sé un intero periodo storico e sociale di cruciale importanza come fu quello dell'Inghilterra vittoriana, con tutte le sue ipocrisie e contraddizioni (ottima la curatela di Nicholas Frankel con prefazione, postfazione e note che illustrano il complesso contesto sociale e biografico, le fonti del romanzo e le differenze fra le varie edizioni). Perfetto.

Il ritratto di Dorian Gray è davvero un capolavoro supremo della storia della letteratura occidentale e un vero, grande, inimitabile, sconvolgente, immortale classico e cioè, per citare Calvino, «un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire». Lo rileggerò a sessant’anni, che – ahimé – sono più vicini di quanto sembrino.

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