Gli Ours sono una di quelle band che purtroppo vengono inspiegabilmente sottovalutate, soprattutto in Europa, pur avendo una proposta musicale interessante e, perché no, anche radiofonica.
Il loro leader Jimmy Gnecco, cantante e chitarrista, è tra le più belle voci nel panorama rock attuale e spazia dai toni profondi, ad una grande padronanza del falsetto, fino ad arrivare agli acuti urlati. Una voce che si può accostare a quelle dei vari Matthew Bellamy, Thom Yorke e Jeff Buckley, senza però emularli. Questo non è un parere, ma è anagraficamente dimostrato.
Il gruppo infatti viene fondato nel 1990 ed esordisce con “Sour” nel 1994, passato praticamente inosservato. Dopo una lunga pausa pubblica due album molto buoni (“Distorted Lullabies” nel 2001 e “Precious” nel 2002). “Distorted Lullabies” in particolare è un disco veramente ispirato e tra l’altro già recensito (meravigliosamente …) su debaser.
“Mercy”, quarto lavoro della band, esce nel 2008 e viene prodotto nientepopodimenochè da Rick Rubin. Lo possiamo definire il disco della maturità e arriva dopo una lunga gestazione dovuta non solo a necessità artistiche. La compagna di Gnecco infatti si tolse la vita in concomitanza con l’uscita del precedente disco e il fatto, come logico, segnò profondamente il nostro singer.
La musica proposta dagli Ours è un rock chitarristico con influenze dark, che ricalca in parte i precedenti dischi, ma con un lavoro di arrangiamento ed un suono evidentemente più curati. Le composizioni sono tutte permeate da una vena malinconica ed alternano momenti acustici alle sferzate più elettriche, il tutto ad accompagnare lo strumento “voce” che la fa da padrone lungo tutto il disco. Si parte con una linea ritmica “martellante” e le melodie eteree della trascinante title-track, brano che indica chiaramente le coordinate dell’intero lavoro. Ma tutti i pezzi sono molto validi: l’oscura “Murder”, ascoltata anche nella serie televisiva CSI, le rabbiose e malinconiche “Live Again” e “Black”, la splendida ballata acustica “Lost” e la liturgica “God Only Wants You”. “The Worst Things Beautiful” invece è il primo singolo estratto dall’album ed infatti il più commerciale, riecheggiando in alcuni tratti gli U2 dei migliori tempi. Una menzione anche a Saint”, dedicata allo scomparso Jeff Buckley, di cui tra l’altro Gnecco era amico e con cui condivideva la passione per la chitarra e molte influenze musicali.
In definitiva questo è un disco che sa emozionare e che accompagna l’ascoltatore attraverso molteplici stati d’animo. Io lo consiglio in particolare agli appassionati degli artisti menzionati in questa recensione.
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