La morte induce all’enfasi, talvolta all’iperbole. Questo album, come molti altri, testimonia quanto il concetto di bellezza si fonda e si confonda con quello di nostalgia; anzi diciamo che la nostalgia stessa null’altro è se non la sublimazione d’un bello che non si ripeterà più.

Questo è il ricordo di Randy, un demiurgo della 6 corde, pieno di talento artistico e di idee compositive, celebrato e forse un pò trasfigurato da una scomparsa prematura. Certo, il vortice consumistico del Madman ha saputo dimostrare che in fondo tutta la baracca era poggiata sul suo carisma, e che il barlume dei suoi satelliti, anche i più luminosi, era in fondo pur sempre una luce riflessa. Ma quando la luce è così intensa da accecare, allora i satelliti trasmutano in pianeti, i buchi neri lambiscono supernove e le regole stesse dell’universo musicale, amorfe, cadono disperse nell’ infinita gallassia dell’arte. Un etere medianico o forse un iperuranio della musica nei due album d’esordio del Madman e, sarò forse di parte perché lo ascolto instancabilmente ormai da quasi due lustri, ma credo che il talento stilisitico di ”Diary of a Madman” sia stato un qualcosa d’ ineguagliabile e di irrepetibile. Una canzone, la title track, posta su una terra di nessuno, al confine tra psichedelia, rock progressive e metal, in un regno dove pochi musicisti hanno regnato. Su questo Live, purtroppo di Diary Of A Madman, ci sono solo due episodi; la claustrofobica Believer e la talentuosa Fligh hight again... peccato. In compenso, però, campeggia l’intero Blizzard of Ozz più 3 perle dei Sabbath (Iron man, Paranoid e Children of the grave, quest’ultima più coinvolgente dell’originale suonata dal pioniere Tony Iommi).
Trova spazio, poi anche per una versione in studio della strumentale Dee, dove l’orecchio più attento può percepire Rhoads inveire contro sé stesso per delle stecche quasi impercettibili…. Tuttavia, non è solo il sapore di tributo a rendere quest’album magico; sarà anche quello, inutile negarlo, però in questo live quasi tutte le canzoni superano le rispettive versioni originali. Penso all’opener “I Dont Know”, oppure (soprattutto) alla struggente “Mr.Crowley”, dove l’epilogo è un assolo da brividi (Zakk lo rifarà identicamente nei live futuri… tuttavia rimane il dato inconfutabile che, pur avendo scritto musica pregevole, quell’assolo, forse il più bello d’una canzone di Ozzy, non porta la sua firma...), o ancora alla decadente “Goodbye to romance”. Emozionante anche il momento in cui Randy si cimenta con un assolo in versione Rock di Bach... nel mezzo di Suicide Solution… veramente da pelle d’ oca. Ci sono tratti di quell’assolo dove quasi non riesco a trovare differenze stilistiche con Van Halen. Ma non è soltanto questione di tecnica, è soprattutto questione di cuore… anzi, qui ci sono entrambe ed è per questo che agli amanti del bello, una prova come questo live non può lasciare indifferenti…

Perché qui tutto è perfetto, a cominciare dalla line up: la sezione ritmica è a dir poco eccezionale: Rudy Sarzo e Tommy Aldridge, maestosi ed immensi in Diary of a Madman, in questo live realizzano e confermano una sezione ritmica assolutamente infungibile; peccato poi che con il passare del  tempo questi due musicisti smarriranno progressivamente il loro carisma (forse compressi troppo nelle successive band, tipo Whitesnake). Ozzy qui è in forma e il suo talento di show man è alle stelle. Tuttavia, i meriti di questo disco (e dei suoi primi due) a mio avviso, gli possono essere ascritti in misura relativa; senza le melodie di Rhoads (coadiuvato in Blizzard anche da Keerlslake e Daisley) e l’apporto di Tommy e Rudy, un lavoro come DOAM, sarebbe stato pressoché impossibile. E non venitemi a dire che, dopo il dissolvimento di quella band, la coreografia del Madman è rimasta intatta, perché non sono d’accordo. Certo, nei decenni successivi un certo Zakk Wylde (non meno dotato di Rhoads, né stilisticamente né tanto meno tecnicamente... ascoltare il suo capolavoro; “Book of shadows” per credere...), confermerà successi planetari nel crogiolo d’una esasperata verve progressivamente sempre più consumistica… però, … opere come DOAM e soprattutto Live come questo, non apparterranno più all’arte del pipistrello di Birmingham; la classe dei musicisti posti a suo corredo rimarrà intatta (cito Deen Castronovo, lo splendido Randy Castillo o Geeser Bulter, soltanto per fare tre nomi), tuttavia non ci sarà più quel quid indescrivibile di dischi come questo, un invisibile valore aggiunto... un’enfasi, un’iperbole… la nostalgia dell’assenza, forse, chissà, ma non solo quella, perché la morte induce all’enfasi, è vero, ma quando l’enfasi è già in vita, allora la morte e la musica fondendosi compiono un miracolo e assieme convolano in un’iperbole immortale…

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