Chesterfield Kings – Stop! (Full Album) garage rock, garage revival
Stavolta sono d’accordo stimo con Greg Prevost e in disaccordo con il Reverendo. Certo non lo ascoltai all’uscita ma molto dopo … però, anche se la qualità delle canzoni è mediamente buona (non ottima, ne eccezionale tranne pochi brani), la potenza del suono non è di livello, la batteria soprattutto è in secondo piano e per nulla pesante… non te ne accorgi). Con il debutto nemmeno inizia un confronto.
Quando nel 2007 Greg Prevost mi confessò di odiare Stop! per me fu come trovarmi sotto le travi di casa mentre i sismografi registrano scosse telluriche proprio sotto il mio culo.
Perché lo avevo sempre considerato, e lo considero tuttora, un disco di una bellezza inarrivabile. Un classico dei classici, una macchina in grado di fermare il tempo. Dentro, dopo l’abbuffata di Here Are e dei primi singoli, ci sono le prime canzoni firmate dal gruppo.
Sembrano vecchi master di qualche oscura band del ’66 finiti dentro qualche bidone degli studi della 4th Avenue o della RCA.
I Chesterfield Kings sono cinque bavose appiccicate ai muscoli della musica sixties.
Passano lasciando una schiuma lattiginosa.
E diventano quello che mangiano.
Sono gli Standells, poi i Monkees, quindi i Turtles, i Sonics, i Royal Guardsmen, i Byrds, gli Stones, i Count V, i Moving Sidewalks, i Gonn, i New Colony Six, i Knickerbockers, i Dave Clark Five, infine la Chocolate Watch Band.
Non si limitano a depredare le loro canzoni, come fanno tutti.
I Chesterfield Kings di Stop! SONO quelle band.
Hanno realizzato il sogno di ogni gruppo neo-garage: suonare come si fosse sul palco di una battle of the bands del 1966. Caschetti e zazzeroni spioventi su una folla di teenagers infoiati dal rock ‘n’ roll. Un sabato sera qualunque della provincia Americana, dopo una puntata dei Three Stooges e un giro di contrabbando con la macchina di papà.
I Kings suonano così, esibendo con orgoglio un’adesione ai canoni stilistici ed estetici che ha del pauroso, reincarnazione legittima dei Rolling Stones sboccati dei mid-sixties, mettendo su un repertorio che è un distillato degli ascolti voraci di Greg Prevost e Andy Babiuk.
Un pezzo come She‘s Got Time ad esempio è un precipitato del suono texano degli Exotics mentre I Cannot Find Her è un matrimonio perfetto tra le chitarre folk dei Grass Roots con le armonie vocali dei Monkees, She‘s Alright un tuffo nel suono di Larry and The Blue Notes, il dolce ciondolare di Cry Your Eyes Out nasconde un ponte che porta al castello dei 13th Floor Elevators mentre la veemenza di Say You‘re Mine non può non far pensare ai Beat Merchants, a Cuby + Blizzards o agli Stones teppisti di Get Off of My Cloud.
Le cover, come è tradizione per i cinque di Rochester, sono suonate con una competenza ben oltre la soglia dell’esasperazione fanatica. Stop!, Fight Fire, My Canary Is Yellow e Bad Woman sono sputate alle originali di Burgundi Runn, Golliwogs, Namelosers e Fallen Angels.
Stop! è una folgorante istantane
Stavolta sono d’accordo stimo con Greg Prevost e in disaccordo con il Reverendo. Certo non lo ascoltai all’uscita ma molto dopo … però, anche se la qualità delle canzoni è mediamente buona (non ottima, ne eccezionale tranne pochi brani), la potenza del suono non è di livello, la batteria soprattutto è in secondo piano e per nulla pesante… non te ne accorgi). Con il debutto nemmeno inizia un confronto.
Quando nel 2007 Greg Prevost mi confessò di odiare Stop! per me fu come trovarmi sotto le travi di casa mentre i sismografi registrano scosse telluriche proprio sotto il mio culo.
Perché lo avevo sempre considerato, e lo considero tuttora, un disco di una bellezza inarrivabile. Un classico dei classici, una macchina in grado di fermare il tempo. Dentro, dopo l’abbuffata di Here Are e dei primi singoli, ci sono le prime canzoni firmate dal gruppo.
Sembrano vecchi master di qualche oscura band del ’66 finiti dentro qualche bidone degli studi della 4th Avenue o della RCA.
I Chesterfield Kings sono cinque bavose appiccicate ai muscoli della musica sixties.
Passano lasciando una schiuma lattiginosa.
E diventano quello che mangiano.
Sono gli Standells, poi i Monkees, quindi i Turtles, i Sonics, i Royal Guardsmen, i Byrds, gli Stones, i Count V, i Moving Sidewalks, i Gonn, i New Colony Six, i Knickerbockers, i Dave Clark Five, infine la Chocolate Watch Band.
Non si limitano a depredare le loro canzoni, come fanno tutti.
I Chesterfield Kings di Stop! SONO quelle band.
Hanno realizzato il sogno di ogni gruppo neo-garage: suonare come si fosse sul palco di una battle of the bands del 1966. Caschetti e zazzeroni spioventi su una folla di teenagers infoiati dal rock ‘n’ roll. Un sabato sera qualunque della provincia Americana, dopo una puntata dei Three Stooges e un giro di contrabbando con la macchina di papà.
I Kings suonano così, esibendo con orgoglio un’adesione ai canoni stilistici ed estetici che ha del pauroso, reincarnazione legittima dei Rolling Stones sboccati dei mid-sixties, mettendo su un repertorio che è un distillato degli ascolti voraci di Greg Prevost e Andy Babiuk.
Un pezzo come She‘s Got Time ad esempio è un precipitato del suono texano degli Exotics mentre I Cannot Find Her è un matrimonio perfetto tra le chitarre folk dei Grass Roots con le armonie vocali dei Monkees, She‘s Alright un tuffo nel suono di Larry and The Blue Notes, il dolce ciondolare di Cry Your Eyes Out nasconde un ponte che porta al castello dei 13th Floor Elevators mentre la veemenza di Say You‘re Mine non può non far pensare ai Beat Merchants, a Cuby + Blizzards o agli Stones teppisti di Get Off of My Cloud.
Le cover, come è tradizione per i cinque di Rochester, sono suonate con una competenza ben oltre la soglia dell’esasperazione fanatica. Stop!, Fight Fire, My Canary Is Yellow e Bad Woman sono sputate alle originali di Burgundi Runn, Golliwogs, Namelosers e Fallen Angels.
Stop! è una folgorante istantane
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