Chi pensava che i Pain of Salvation una volta tornati al loro sound più caratteristico ci sarebbero finalmente rimasti in pianta stabile dovrà ricredersi. Il ritorno al prog-metal di “In the Passing Light of Day” aveva illuso e fatto felici un po’ tutti, ma Daniel Gildenlöw è un nomade del suono, ama spostarsi in continuazione su territori diversi e probabilmente non troverà mai una fissa dimora. Cerchiamo anche di essere un tantino obiettivi: i Pain of Salvation non sono mai stati davvero una band metal, non sono mai stati fatti per piacere ai metallari, la componente metal è sempre stata volatile, sporadica, non proprio solida e si manifesta più per “inserti”, forse soltanto i primi due album possono in qualche modo piacere a qualche metallaro ma anche lì la proposta è già fin troppo profonda per essere appetibile al classico adolescente brufoloso ed immaturo.
Quindi dimenticate il prog-metal, salutatelo ancora una volta, e tutto questo nonostante il ritorno del chitarrista Johan Hallgren che poteva far sperare in qualcosa di metallico e massiccio; in “Panther” si torna a sperimentare e lo si fa con una certa dose di pazzia, senza limiti e senza paura del risultato, cosa che non può che avere la mia approvazione. Un album davvero inclassificabile, non si inserisce in nessun preciso genere e non sembra esserci nessun rimando esplicito (o forse uno, volontario o meno che sia), ogni brano è diverso da tutti gli altri e presenta soluzioni davvero particolari e sbalorditive; anche nella loro versione più atipica i Pain of Salvation rimangono loro stessi e non paragonabili davvero a nessuno. Tuttavia le palesi differenze fra i brani non escludono la presenza di elementi che li accomunano come ad esempio un sound cupo, futurista e post-industriale e la scelta di una produzione grezza, sporca, imperfetta, strusciante, quasi lo-fi, produzione che è stata senz’altro il capro espiatorio di tanti che non hanno apprezzato questo lavoro; ma giudicare un lavoro dalla produzione non credo sia la cosa giusta, chissà quanti grandiosi album non godono di un mixaggio proprio eccellente, il primo disco dei Dream Theater allora dovremmo buttarlo nel cesso (sì, so già che arriverà il simpaticone anti-Dream Theater che dirà “soltanto il primo album?”)…
Il track by track stavolta è necessario, dato che ogni traccia è un qualcosa a sé e non si possono davvero creare gruppi di canzoni per tipo di approccio. Già quando parte “Accelerator” tutto ci sembra “alieno”, guizzi elettronici industriali uniti ad un ritmo ossessivo ed inquietante e a chitarre monotone e martellanti, una sequenza di colpi di chitarra presa in prestito dal metal ma senza mai suonare metal. “Unfuture” è ancora molto industrial ma in modo diverso e con un approccio notevolmente più oscuro e pure un po’ tribale, dei particolarissimi “graffi” di chitarra acustica e degli arpeggi acustici su registri bassissimi, qualche ticchettio elettronico, qualche coro acuto e un paio di chitarre un po’ più spinte (le più spinte di tutto il disco) alla maniera dei Tool; potrebbe ricordare in qualche modo “The Big Machine” per il ritmo e per l’alternanza di parti più soft e sofferte ad altre più dure e rabbiose, tuttavia il sound è profondamente diverso. Il mood oscuro prosegue con “Restless Boy”, caratterizzata da tastiere ondeggianti, grigie e plumbee dal sapore vagamente trip-hop alternate con fughe di chitarre martellate anche in questo caso riconducibili al metal ma senza arrivare a suonare metal. Poi arriva il brano da comfort zone, quello che accontenta tutti e che risolleva l’opinione favorevole dei detrattori; “Wait” è il brano più vicino alle classiche melodie del gruppo, è guidata da un piano moderatamente vivace seguito a ruota da chitarre acustiche altrettanto energiche, ma i Pain of Salvation non vogliono farla sembrare un brano “classico” ed ecco che ci inseriscono degli strani cigolii verso metà brano e verso la fine (sembra davvero di sentire una ruota cigolante, mi hanno fatto tornare in mente la giostra vecchia e rugginosa che c’era al parco giochi vicino casa quand’ero piccolo). “Keen to a Fault” è movimentata e frizzante, guidata da rapidi intrecci di synth non troppo vistosi e di chitarre simil-flamenco in un vago mix a metà strada fra Muse e Three. “Fur” è invece un breve interludio eseguito al banjo.
Tuttavia ecco che arriva la title-track, e non è un brano qualsiasi, tanto da meritare un paragrafo a parte: è l’unico brano nella discografia del gruppo ad assomigliare esplicitamente a qualcosa di altrui; i Pain of Salvation durante tutta la loro carriera sono sempre stati attenti a non assomigliare a nessuno, a suonare originali al 100%, ma stavolta sono incappati in una scopiazzatura evidente; c’è chi al primo ascolto ha pensato immediatamente ai Linkin Park e chi mente, quegli schizzi elettronici e il cantato rap di Gildenlöw (che ha sempre dimostrato di essere anche un ottimo rapper) non possono non ricordare i primi tempi della band americana. Chi si sarebbe mai aspettato tutto questo 15 anni fa? Chissà se questo tributo è volontario o meno, sta di fatto che riuscire a produrre un’imitazione fedele è difficile quanto essere 100% originali, quindi, ancora una volta, complimenti ai Pain of Salvation!
“Species” è il brano probabilmente meno sorprendente, un buon brano guitar-oriented dall’essenza vagamente etnica ed orientale. “Icon” invece è l’ennesima perla, 13 minuti fra tocchi di piano, fruscii di tastiere e soprattutto riverberi e rumori di chitarre graffianti con un occhio perfino al noise.
Che dire, i Pain of Salvation si mostrano ancora una volta coraggiosi, spregiudicati ed indifferenti alle critiche. Probabilmente il disco dell’anno 2020.
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