Quando il gioco si fa duro, i duri cominciano a giocare.

Certo, la figura di John Zorn non è esattamente la prima che verrebbe alla mente, disserendo di cattiveria, no? Occhiali cerchiati dalla montatura pesante, ghigno beffardo stampato sulle labbra, pantaloncini militari incollati perennemente alle gambe. E poi il sax, il suo sax, quello che da ormai trentasette anni popola gli incubi e i desideri di mezza avanguardia musicale. Ma andiamo per ordine.

Succede, dunque, che nel 1991 Mick Harris, fino ad allora batterista dei Napalm Death, viene cacciato dalla madrepatria per la sua coraggiosa voglia di osare, di scollarsi di dosso un po' di clichè che la band di Birmingham, specialmente con l'uscita di "Harmony Corruption", cominciava a portarsi dietro. Nello stesso periodo, l'allora trentanovenne musicista newyorchese è reduce dall'eccezionale riscontro critico dei suoi Naked City, con due dischi acclamatissimi (l'omonimo esordio e "Grand Guignol") ed un altro, "Radio", forse il più bello ed eclettico mai pubblicato dalla "città nuda", in fase di registrazione. Inevitabile, dunque, data la particolare capacità di Zorn di incidere lavori con qualunque persona sia disposta a stare al gioco, che le due menti, i due punti di vista, i due modi di pensare ed organizzare logicamente (...ma anche no) la musica entrassero in contatto fra di loro. Nascono perciò i Painkiller, devastante trio (con l'aggiunta di Bill Laswell al basso) che fonde la furia chirurgica del grindcore e i germi del primo death metal con le quadrangolari schizofrenie soniche tipiche degli episodi più spinti della produzione zorniana come possono essere, ad esempio, gli inascoltabili trattati per sax di "The Classic Guide To Strategy" o i free-form jazzcore del già citato "Grand Guignol".

A questo proposito, bisognerà fare un distinguo, necessario per poter capire veramente la natura del gruppo. Data anche l'estrema vicinanza dei due progetti, e la sottoesposizione che i Painkiller hanno da sempre avuto nei confronti degli stellari nemici/amici, viene fatta sovente confusione fra loro e i Naked City, rimescolati il più delle volte in un unico calderone e considerati come la stessa espressione di una nuova maniera di intendere la forma/canzone che, in quegli anni, prendeva piede nel modus operandi di Zorn. In realtà la faccenda è più particolare e ben definibile. Vero è che quelli, grazie anche alla folle spinta propulsiva del vocalist, già Boredom, Yamatsuka Eye, si abbandonavano ben volentieri a telluriche degenerazioni metalliche, che saccheggiavano soprattutto le reni dell'hardcore punk (genere che il sassofonista non ha mai fatto mistero di apprezzare per velocità esecutiva e capacità di concentrare molti concetti in durate ridotte). Il tutto, però, era ricondotto verso una dimensione caricaturale o, comunque, fortemente umoristica, e basterà visionare i numerosi video live reperibili su YouTube per accorgersi di come, anche durante l'esecuzione dei segmenti più incendiari, i cinque dandy della Grande Mela se la sganasciassero allegramente. Questi, invece, fanno sul serio, maledettamente sul serio, sin dalla copertina di "Guts Of A Virgin", primo dei due EP ufficiali datato 1991, che sarà censurato in tutti i paesi britannici. Qui non c'è melodia, non c'è pietà, non c'è nemmeno rock: c'è solo la consapevolezza di poter andare oltre l' "oltre", se mi passate il poliptoto, di sfondare la cacofonia per arrivare in una dimensione superiore.

"Scud Attack", l'opener, è agghiacciante, e fulmina al suolo l'ascoltatore con un grind futuristico, potentissimo sia che si dipani attraverso accelerazioni jazzistiche, nelle quali il sax di Zorn assume movenze genocide, sia nei melmosi intarsi di basso e batteria, che sembrano quasi fare l'eco ai Melvins ed anticipare di un decennio l'etichetta sludge. La batteria di Harris è incontrollabile, negli scatti e nelle ripartenze ("Damage To The Mask"), il basso diventa corpo alieno nel suo rimbombare all'infinito ("Hostage", che frigge come se fosse animata da nitroglicerina), Mick Harris si mangia Patton con un paio d'anni d'anticipo (la title-track, allucinante, ma anche "Purgatory Of Fiery Vulvas"). E, in mezzo alle solite schegge di pochi secondi, come al solito totalmente fuori controllo ("Deadly Obstacle Collage", "Handjob"), i nostri si inventano pure un ibrido jazz-dub che acquieta gli spiriti un po' e fa sporgere il volto verso il lettore cd per alzare il volume ("Dr. Phibes", di certo pezzo migliore del disco), prima che questo si animi di vita propria e pianti la mannaia in mezzo agli occhi, con la carneficina hardcore di "Devil's Eye".

Tutto qui? Tutto qui.

Fate un fischio, quando ne verrete sopraffatti. John Zorn perdona, ma non dimentica.

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