Affascinante il cielo. Potrei starmene ore impalato a scrutare le stelle senza avere la benché minima idea di cosa stia guardando esattamente e del perché lo stia facendo. Perdersi tracciando immaginarie costellazioni, romantiche per chi stringe il proprio amante a sé nell'intimità e nell'oscurità della notte, intriganti per chi spera che la solitudine della razza umana nell'universo sia prima o poi destinata a finire, magiche per chi, come il sottoscritto, si ritrova a sognare ad occhi aperti, fissando quei corpi luminosi che, tremolanti a causa degli effetti distorsivi dell'atmosfera, sembra ci sorridano, facendoci l'occhiolino, come a schernire la nostra incapacità di raggiungerli.
Uno dei complessi stellari più conosciuti, data la sua estesa visibilità dal pianeta Terra, è certamente Orione, che, grazie alla sua celeberrima cintura, ha da sempre rapito l'immaginario collettivo di molti popoli, i quali sono spesso arrivati ad attribuire un significato mistico alla disposizione in linea retta delle tre stelle che la compongono, partendo dalla divinizzazione in astri della prosperità, della buona sorte e della longevità voluta dalla tradizione cinese, passando alle recenti speculazioni sui punti in comune con l'assetto delle piramidi di Giza, fino ad arrivare, ebbene sì, al prog.
Nel 1972 infatti, in Olanda, un anno dopo aver vinto il Rekreade Festival che annualmente si tiene in The Hague, gli allora giovanissimi Albert Veldkamp (bassista e chitarrista), Ruud Wouterson (tastierista), Hans Boer (fiatista) e Rob Verhoeven (batterista) realizzarono, sotto il nome di Panthéon, il loro primo ed unico LP, battezzandolo, per l'appunto, "Orion".
Il lavoro in questione gode di una vivacità particolare, la quale, unita a certi stilemi caratteristici del jazz, non tarda a rivelare le proprie origini canterburyane, facilmente riconoscibili già dall'iniziale "Daybreak", in cui il flauto e la chitarra corrono spensieratamente scambiandosi un'immaginaria staffetta, costantemente inseguiti dalla tastiera e da fugaci apparizioni vocali dal gusto vagamente liturgico, non molto affini all'atmosfera prodotta dagli altri strumenti, i quali tornano faccia a faccia durante i toni meditativi di "Anais", dove spetta al flauto il compito di stare in retroguardia.
I pezzi più lunghi sono anche i migliori e se la suite conclusiva "Orion", nonostante il pregevole lavoro del sax, pecca forse di un'eccessiva prolissità e di frequenti cambi di ritmo parzialmente fini a sé stessi, "Apocalyps" (divisa dalla title track per mezzo del breve ed evitabilissimo intermezzo di "The Madman"), illuminata da una notevole prova del comparto ritmico e fiatistico e da vocalizzi leggermente meno fastidiosi e fuori luogo del solito, per non parlare di uno splendido assolo di piano sul finale, si afferma come l'episodio più riuscito di un album dove, a volte, si avverte una lieve, seppur distinguibile, mancanza di idee.
Come l'eroe che dà nome alla costellazione alla quale è intitolato il disco, i Panthéon, dopo aver resistito due anni in seguito alla pubblicazione dello stesso, si eclissarono definitivamente, per loro fortuna non nello stesso modo del mitologico cacciatore, il quale, secondo una delle tante versioni della leggenda, per aver rifiutato le attenzioni di Artemide, venne ucciso, insieme al suo fedele segugio Sirio, da uno scorpione, inviato per tale meschino scopo dalla sdegnata dea della caccia. Zeus, fortemente adirato per l'accaduto, riservò un posto nell'emisfero boreale a Orione e al suo cane, per sempre al sicuro dalla costellazione dello Scorpione, destinata a rincorrere in eterno i due amici, che continuano ancora oggi le loro battute di caccia nelle profondità infinite dello spazio.
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