Più che un film su Giulio Andreotti, pare un remake de "Il Padrino". Poco male, perché resta pur sempre un grande film (anche superiore al contendente, diciamo così, "Gomorra"). Non certo un capolavoro, come in molti hanno blaterato (ma ormai, da qualche anno, si è scatenata una vera e propria caccia al capolavoro, nonostante l'ultimo capolavoro che ricordo è datato 2000, "Gostanza da Libbiano").
"Il Divo" è un film italiano, con attori italiani (tolta Fanny Ardant), che parla di vicende italiane, con protagonisti italiani, ma nella realizzazione sembra un film americano. Sorrentino (un buon regista, ma per carità, nulla di più) è uno che il cinema, oltre ad averlo visto, l'ha pure studiato, e dev'essersi appassionato a Scorsese e De Palma, Cassavetes e Demme. Racconta gli ultimi anni dell'Andreotti-style, quelli del VII governo, dell'immobilismo come concezione politica, del calderone ministeriale, con Cirino Pomicino e Ciarrapico in prima fila, delle alleanze con la Chiesa, l'inizio di Tangentopoli, le connivenze con la mafia. E la vita privata, di un divo, il Divo Giulio (come veniva soprannominato Giulio Cesare) fatta di affetti e menzogne, bugie e solitudine.
Racconta tanti fatti, spesso in maniera estremamente convulsa, di tanto in tanto il ritmo colpevolmente cala, ma è come se a Sorrentino dei fatti importasse poco, perché si concentra, a volte in maniera morbosa, sui gesti, sui volti, sulle espressioni dei personaggi in scena, un po' come il Cassavetes di "Faces" (1968) e quando vuole aumentare la tensione, i primi piani si fanno ancora più insistenti, emulando la forma da thriller de "Il silenzio degli innocenti" (1991), in cui più che l'azione a dare colore al film erano i piccoli movimenti dei muscoli facciali dei protagonisti. E crea almeno due sequenze da mandarsi a memoria, capaci di creare due opposti sentimenti allo spettatore: indignazione e pelle d'oca. Indignazione per come viene rappresentato il palazzo del potere all'indomani della formazione del Governo (feste, balli, tamburi a scandire il ritmo di un governo nato già morto, con Cirino Pomicino a orchestrare le danze) e pelle d'oca per quella bella sequenza in cui Andreotti prende per mano la moglie mentre guarda in televisione Renato Zero cantare "I migliori anni della nostra vita", con insistita panoramica, guarda caso, della guancia di Servillo/Andreotti.
Ben realizzate e congegnate anche le innumerevoli sequenze degli omicidi o dei suicidi (molto alla Scorsese, anche se qualcosa ricorda vagamente "Gli intoccabili" (1987) di De Palma), così come vengono inserite, in maniera piuttosto azzeccata, le frasi più celebri pronunciate da Andreotti, da "è meglio tirare a campare piuttosto che tirare le cuoia" o "mi considero un uomo di media intelligenza, ma in giro non vedo molti giganti".
A convincere meno sono le parti un po' più superficiali, un po' più tirate vie, come la mancata elezione a presidente della Repubblica con la scelta, da parte del Parlamento, di optare per Oscar Luigi Scalfaro (ci si poteva lavorarci un po' di più, in fondo è un passaggio cruciale nella "carriera" di Andreotti), o alcune lunghe, troppo lunghe, sequenze parlate, come l'intervista di Eugenio Scalfari al Divo (con le teorie sul caso) o la confessione che Andreotti fa all'amico Cossiga ("ho sempre amato Mary Gassman, la sorella di Vittorio") che sa più di boutade cinematografica ad effetto, nel senso che, se pur confessione veritiera, all'interno del film c'entra poco o niente.
Due parole sul cast. Ottimo in alcuni elementi, su tutti naturalmente protagonista assoluto Toni Servillo (che dipinge un Andreotti pieno di mal di testa che si cura con l'agopuntura), magnifico soprattutto quando a metà film confessa, da solo, di avere compiuto gesti indegni per un uomo (un monologo straordinario), un ottima Fanny Ardant, Piera Degli Esposti. Convince meno il Cirino Pomicino di Carlo Buccirosso, un attore più adatto a ruoli scanzonati, piuttosto che a generi cinematografici più impegnati.Carico i commenti... con calma