Da ammiratore di Sorrentino, dico che questa volta è andato oltre. Va bene l'estetica, vanno bene i feticci, va bene la giustapposizione di scene che sembrano quadri, il trash e l'irriverenza, ma senza una storia solida alle spalle, senza personaggi caratterizzati, senza un legante, tutto diventa quasi una parodia, un voler essere profondi e belli senza il “retroterra” su cui costruire quelle riflessioni, quelle scene.

Risultato: anche i momenti più drammatici e intensi si consumano senza emozioni, perché di quei personaggi sappiamo poco, ci viene detto il minimo, per almeno due motivi. Uno, il regista è troppo preso dal costruire inquadrature e scene accattivanti in sé, per trovare spazio e tempo per raccontarci anche chi sono quei personaggi. Quelli che vediamo a schermo sono solo dei modelli, dei manichini vuoti in sequenze visivamente memorabili.

Due, sembra che la sua vena da scrittore abbia pericolosamente virato questa volta sul filosofico-esistenziale, ma senza una materia concreta su cui riflettere (le vicende di Andreotti, quelle di Silvio, le sue, per fare tre esempi dal passato). Mancano proprio i contenuti da cui derivare le riflessioni. Si susseguono dialoghi meditabondi, intuizioni brillanti, risposte sagaci, ma quel che manca è proprio il costrutto essenziale di cui sono fatte le storie: dialoghi normali, dettagli che danno contesto, scene di quotidianità, aneddotica, ma anche obiettivi di vita, scambi franchi e non sempre supponenti, un'ostensione delle interiorità dei personaggi più piana e meno presuntuosa (da parte di chi scrive la sceneggiatura, ovviamente).

Qui invece è tutto così esteticamente intonato da risultare irreale, schematico, algido.

Sorrentino sfronda il “banale” per concentrarsi sui suoi feticci, che funzionano sempre come scene singole, ma così viene meno l'organicità dell'opera complessiva: non siamo mai catturati dalla storia, ne rimaniamo distanti. Le fasi della vita di Parthenope si giustappongono stancamente, senza un filo conduttore, perché non vediamo una coerenza, ma solo un trascinarsi avanti in contesti disparati e in digressioni oltremodo gonfiate. Manca un motore, una motivazione.

Se avesse avuto davvero qualcosa da raccontare, Sorrentino non avrebbe dedicato porzioni così ampie del suo film a scene come il rapporto sessuale “pubblico” tra due rampolli della camorra, o alla lunghissima diramazione dedicata al rapporto tra la ragazza e il vescovo di Napoli, per quanto gustosa possa essere. Sono sicuro che l'abbia fatto solo per il gusto di girare quella scena lì, lei con indosso il tesoro di San Gennaro.

Anche l'estetica, rispetto al passato, si focalizza troppo su un unico soggetto: una ragazza bellissima, che non è nemmeno una trovata così originale. Splendide le inquadrature del triangolo amoroso, pungente il disincanto della diva Greta Cool, spassose le contraddizioni del vescovo, ma a prevalere (per me) è la supponenza di voler essere profondi e intellettuali senza avere nella propria penna la forza per esserlo davvero, o esserlo ancora una volta. Le massime filosofiche che si susseguono gratuitamente sono un evidente segno di stanchezza da parte dell'autore. Bisogna ritrovare l'umiltà di raccontare artigianalmente la vita, senza porsi su un piedistallo e giudicare tutto e tutti.

Il precedente film funzionava meglio proprio perché raccontava Napoli dal punto di vista del popolo, dalla signora gentile che divora una mozzarella al tifoso che minaccia di uccidersi se non dovesse arrivare Maradona. Aveva una sua autenticità. Qui ci muoviamo tra le élite: intellettuali, professori, star del cinema, boss, gerarchie ecclesiastiche. Si vede che non li sente suoi, questi personaggi. Continuando a cercare dall'alto una definizione per la città, non fanno altro che allontanarsi da essa, dal suo cuore palpitante e putrescente.

Il tradimento di Sorrentino-Parthenope per la sua Napoli.

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