Prima il death/doom granitico degli esordi, poi la virata più gothic oriented di "Icon" e soprattutto "Draconian Times", successivamente le sperimentazioni elettroniche del (per me) sottovalutato "Host", seguito da una serie di album più anonimi. Il ritorno ad una buona creatività con l'omonimo disco del 2005 e la nuova commistione gothic/doom di lavori come "In Requiem" e "Faith Divides Us - Death Unites Us". Ora, dopo 25 anni di carriera multiforme e cangiante, il ritorno al passato, i tentacoli allungati verso quel doom possente e malinconico dei primi vagiti. Un bene o un male?

Una cosa è certa e assodata: poche realtà in ambito metal hanno cambiato, sperimentato e esplorato orizzonti più ampi come ha fatto il combo di Halifax. Ogni nuovo disco è un insieme di aspettative e di dubbi circa la strada intrapresa dai PL. L'ultimo "The Plague Within" è l'ennesima conferma di una realtà musicale che varia, cambia, si evolve e spesso spiazza l'ascoltatore.

La registrazione (Century Media) esalta un disco dove arrangiamenti e suoni risaltano il giusto per enfatizzare uno stile che è tornato sulla falsariga di opere come "Lost Paradise" e "Shades of God", pur mantenendo un certo gusto melodico che è il lascito degli ultimi lavori. "Terminal" è subito un esempio del come back verso il death, con una struttura essenziale e scarna, in controtendenza rispetto alla "pienezza" compositiva dell'opener "No Hope in Sight", dove growl e clean vocal si alternano in una song dalle conformazioni mutevoli. Basta l'inizio di questo TPW per riascoltare un convincente Nick Holmes dietro il microfono, decisamente più positivo di quanto ascoltato negli ultimi anni in sede live. Impressioni confermate anche in "Punishment Trough Time", dal mood oscuro e old style, dove il sempre grande Greg Mackintosh grandina un riffing al limite del thrash.

La già citata "Terminal" ci aveva avvertiti con "forget the past": lezione che evidentemente gli inglesi non sembrano aver assimilato, perchè tirano fuori "Beneath Broken Earth", uno dei brani più duri, retrò, death e malinconici che la band ha partorito in tutta la propria storia. Una gemma assoluta nel manuale di "come dovrebbe suonare il doom metal".

L'ultima fatica targata Paradise Lost è un disco che riconcilia con il genere e che riassume in 50 minuti un intero mondo (e modo) di approcciarsi al gothic più monolitico, quello che non lascia spazio alle aperture simil pop tanto care alla stragrande maggioranza delle band odierne. Un lavoro che raramente sbaglia (se non nella confusionaria "Victim of the Past").

I Paradise Lost si confermano una delle poche realtà affidabili nel calderone metallico e partoriscono per l'ennesima volta un disco con molteplici sfaccettature, che è allo stesso tempo diverso dal precedente ma capace di inglobare tutte le facce indossate dal gruppo nel corso degli anni.

Un ritorno di quelli pestilenziali. Bentornati maestri.

1. "No Hope In Sight" (4:50)
2. "Terminal" (4:27)
3. "An Eternity Of Lies" (5:56)
4. "Punishment Through Time" (5:12)
5. "Beneath Broken Earth" (6:09)
6. "Sacrifice The Flame" (4:40)
7. "Victim Of The Past" (4:28)
8. "Flesh From Bone" (4:18)
9. "Cry Out" (4:29)
10. "Return To The Sun" (5:44)

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