Una simpatica copertina avvolge il terzo disco di carriera (1977) dell’ennesimo blues rocker in pista negli anni settanta (e poi ottanta, novanta… fino ai giorni nostri: Pat è ancor vegeto e performante). Nel retro di copertina vi è infatti la stessa inquadratura dell’ufficio del manager discografico, però alla fine del “sonoro” provino, col giovane Travers che soddisfatto se ne sta andando lasciando però del… disordine. Uno spasso!

Travers è di Toronto, Canada. Non un grande cantante, però sanguigno e schietto, un po’ alla Rory Gallagher. E come quest’ultimo, alla chitarra non meno che eccellente, pur non raggiungendo il fascino e la personalità del rimpianto fuoriclasse irlandese.

Nella sua Pat Travers Band, arrangiata certe volte a trio come in questo frangente, altre a quartetto con un secondo chitarrista, sono transitati fior di musicisti. In questo disco ad esempio il batterista è Nicko McBrain, poi negli Iron Maiden. Limitandosi solo alla batteria, mi vengono in mente gente come Carmine Appice, Tommy Aldridge (Whitesnake), Mike Shrieve (Santana), Aynsley Dumbar… tutti presenti chi prima e chi dopo nella PTB. Travers è il classico nome che il grande pubblico ignora o quasi (in Italia senza il quasi), ma che i colleghi e gli addetti ai lavori conoscono molto bene ed hanno sempre coperto di elogi.

Non voglio dire con questo che sia un genio… non lo è. E’ un ottimo blues rocker, animoso ed entusiasta, che in cinquant’anni di carriera ha percorso tutto il classico iter di tanta altra gente simile a lui. Vale a dire il consistente successo iniziale quando il rock blues era di moda, poi il solito adattamento a musiche un minimo ruffiane e addizionate di sintetizzatori negli anni ottanta, infine dai novanta in poi il ritorno al blues, ai piccoli club dove esibirsi al posto delle arene, al nocciolo duro e indispensabile di estimatori, da accontentare con una pubblicazione ogni tanto.

L’episodio migliore di quest’album mi appare l’estesa (8 minuti), bitematica “Dedication”, caratterizzata da una intro (“Part 1”) strumentale, per meglio dire organistica. L’Hammond è manovrato dallo stesso Travers ed è sempre un bel sentire. Senza soluzione di continuità arriva poi la “Part 2”, una blues ballad molto ispirata nella quale la chitarra del titolare riprende il proprio predominio.

Un paio di buone canzoni, ovvero “Life in London” e “Speakeasy”, descrivono con slancio le sensazioni trasmesse a Pat dalla capitale britannica, città nella quale si era insediato in quei primi anni di carriera perché l’etichetta discografica che l’aveva scoperto e ingaggiato era inglese.

Altro non dico. Anzi si: il miglior disco di Pat Travers è dal vivo! S’intitola “Go For What You Know”, ed è… speciale. Qualcuno dovrebbe recensirlo.

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